1. Cos'è il debito pubblico?
R. Il debito pubblico si forma quando le strutture dello stato (governo, regioni, province, comuni) spendono più di quanto incassano attraverso imposte, tributi, tariffe, oneri sociali. Lo scarto che si crea nel corso di un anno si definisce deficit. La somma di tutti i deficit accumulati ad una certa data forma il debito. In altre parole il deficit esprime la sfasatura relativa ai singoli anni; il debito la situazione debitoria complessiva accumulata negli anni.
Uno stato con potere di battere moneta, può finanziare il proprio debito con l'emissione di nuova moneta. Il che corrisponde ad una tassazione generalizzata di tutti i cittadini, perché l'emissione di nuova moneta, a parità di produzione, provoca inflazione, ossia aumento generale dei prezzi che decurta il potere d'acquisto di tutti. L'Italia ha utilizzato questa via prevalentemente negli anni settanta, facendovi ricorso più limitato negli anni successivi. Ma da quando è entrata nell'euro, nel 2001, questa possibilità le è preclusa del tutto perché il potere di emissione è assegnato alla Banca Centrale Europea, espressione delle banche centrali della zona euro, a loro volta espressione delle banche private dei singoli stati.
La Banca Centrale Europea non ha fra i propri compiti quello di soccorrere i paesi debitori e gli unici modi che questi hanno per fare fronte alle proprie difficoltà finanziarie sono il dilazionamento dei pagamenti nei confronti dei propri fornitori e l'accensione di prestiti presso banche e qualsiasi altro soggetto (assicurazioni, fondi, famiglie) disposto a fornire denaro in cambio di un tasso di interesse. Generalmente il prestito è ufficializzato da un certificato emesso dal Ministero del Tesoro, che certifica l'ammontare ricevuto, la data di restituzione e il tasso di interesse riconosciuto. Tali certificati sono genericamente definiti titoli di stato o titoli di debito pubblico, ulteriormente suddivisi in Bot (Buoni ordinari del tesoro), Cct (Certificati di credito del tesoro), o altro, in base alle condizioni specifiche del prestito.
R. In Italia, il debito pubblico ha cominciato ad assumere dimensioni preoccupanti negli anni settanta, allorché iniziò a formarsi un divario consistente fra entrate e spese pubbliche. Mentre in alcuni periodi le uscite crescevano più ampiamente delle entrate, in altri succedeva che le prime salivano mentre le seconde scendevano. Ad esempio, nel periodo 1971-1974 le entrate, in rapporto al prodotto interno lordo (Pil), si ridussero dello 0,5% (dal 29 al 28,5%), mentre le uscite crebbero dal 36,9 al 43,4%.
Fra le ragioni per cui nel corso degli anni si sono avute entrate inferiori a quelle che il sistema avrebbe potuto garantire, va citata la riduzione delle aliquote sugli scaglioni più alti di reddito, la bassa tassazione dei redditi da capitale, la riduzione se non l'eliminazione delle imposte patrimoniali, l'elevato tasso di evasione fiscale, l'espandersi dell'economia in nero.
Fra le ragioni per cui si è avuta un'accelerazione delle uscite, vanno citate le politiche a sostegno delle imprese, il pensionamento precoce nel settore pubblico, l'abnorme espansione occupazionale in ambito pubblico e il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità al tempo stesso clientelari ed elettorali, l'esplosione dei privilegi dalla politica, le ruberie a vantaggio di imprese appaltate dallo stato per spartire il bottino con i partiti al governo, la corruzione valutata 60 miliardi di euro l'anno.
Ma non va dimenticato il ruolo degli interessi che specie negli anni ottanta sono stati elevatissimi. Nel 2010 la spesa per interessi è stata pari a 70,1 miliardi di euro corrispondente all'8,8% dell'intera spesa pubblica e al 15,7% delle entrate tributarie (Imposte dirette e indirette esclusi oneri sociali). In effetti gli interessi, oltre ad accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la ricchezza di tutti.
Fonti: Maria Teresa Salvemini, Le politiche del debito pubblico, Laterza 1992; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanzapubblica; Nunzia Penelope, Soldi rubati, Salani Editore 2011.
R. Secondo i dati della Banca d'Italia, al giugno 2011 il debito pubblico totale ammontava a 1901 miliardi di euro pari al 122% del Pil realizzato nel 2010. Ma economisti come Loretta Napoleoni, affermano che è impossibile avere il dato preciso perché in ogni ambito delle amministrazioni pubbliche, dal Ministero del Tesoro, fino all'ultimo comune d'Italia, possono essere stati accesi prestiti presso banche private compiacenti che in cambio di laute commissioni hanno escogitato degli stratagemmi per farli passare come anticipi su operazioni future. Ma il problema è che si tratta di operazioni assimilabili a scommesse che possono o non possono dar luogo ad incassi. In conclusione si fanno comparire fra le entrate somme che negli anni successivi possono trasformarsi in debiti, gravati di interessi, perché l'evento auspicato non si è realizzato.
Benché si tratti di operazioni configurabili come veri e propri falsi in bilancio, purtroppo sono utilizzate anche dai governi. Il caso più eclatante è stato scoperto a carico della Grecia che aveva agito con la complicità della banca d'affari Goldman Sachs. Per essere ammessa nell'euro, nell'anno 2001 e seguenti, la Grecia aveva bisogno di dimostrare che il suo deficit annuale era inferiore a quello reale e non potendo agire sul piano delle uscite, aveva deciso di falsificare i dati sul piano delle entrate. In altre parole si era fatto anticipare da Goldman Sachs dei soldi su polizze assicurative relative ad eventi finanziari futuri (l'innalzamento dei tassi di interesse piuttosto che la rivalutazione di certe valute) di cui nessuno poteva prevedere l'andamento. Ma ciò non interessava a nessuno: il problema era ingannare, poi si sarebbe visto. E infatti nel 2010 il bubbone è scoppiato perché non poteva essere più tenuto nascosto. Ed oggi la Grecia non sa di che morte morirà.
Gustavo Piga, professore dell'università di Tor Vergata, ha spiegato che tutti i grandi paesi industrializzati del mondo, Italia compresa, ricorrono all'uso di queste polizze assicurative, meglio conosciute come derivati, che però sono costosissime e tal volta articolate in una maniera tale che se l'evento assicurato non si realizza, può essere il cliente a dover pagare l'assicuratore. Ne sanno qualcosa i 519 comuni d'Italia che dalla sottoscrizione di simili polizze, con banche del calibro di Deutschebank o Ubs, stanno registrando perdite per quasi un miliardo di euro. Così l'utilizzo delle moderne tecniche di ingegneria finanziaria sta aggravando il debito pubblico e lo sta rendendo sempre più opaco, ossia fuori controllo. I vincenti, ancora una volta, sono le banche e le assicurazioni.
Fonti: Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Gustavo Piga, Derivatives and public debt management, Isma 2001; Loretta Napoleoni, Il contagio, Rizzoli 2011.
R. Una prima classificazione può essere fatta in base alla nazionalità dei detentori. Da questo punto di vista, al giugno 2011, il debito pubblico era detenuto per il 56,4% da soggetti italiani e il 43,4% da soggetti stranieri.
Una seconda classificazione può essere fatta in base alla tipologia giuridica dei detentori. Da questo punto di vista, la quota detenuta dalle famiglie, al giugno 2011, corrispondeva al 12,7%. Tutto il resto era detenuto da investitori istituzionali: banche, assicurazioni e fondi. Più precisamente: 3,6% Banca d'Italia; 26,2% banche commerciali italiane, 13,8% assicurazioni e fondi italiani, 10,6% banche estere, 32,8% fondi esteri.
In conclusione, limitatamente alla parte di debito detenuto dagli investitori istituzionali, la suddivisione fra soggetti italiani ed esteri è praticamente al 50%, mentre la suddivisione fra banche e fondi è rispettivamente del 46,8 e 53,2%.
Fonti:Elaborazione dati Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Morgan Stanley, Who owns Italy's governmentdebt?, luglio 2011.
La speculazione è una strategia attuata da parte di fondi, assicurazioni e banche per guadagnare sul debito a più riprese.
Le tecniche finanziarie sono molte, ma una delle più ricorrenti è la speculazione al ribasso che consiste nel vendere, al prezzo di oggi, titoli che saranno consegnati fra una settimana o fra un mese. Il tempo è un elemento determinante, ma non è la semplice separazione fra data di vendita e data di consegna che consente agli speculatori di guadagnare. Il vero segreto è che non possiedono i titoli che offrono, in fondo il trucco sta tutto qui. La loro speranza è che nel frattempo il prezzo scenda e quando arriverà il tempo di consegnare i titoli, li compreranno sul momento a prezzi ribassati. Nella differenza fra l'alto prezzo di vendita di oggi e il basso prezzo di acquisto di domani, sta il loro guadagno. Sempre che tutto vada bene.
Ma banche e fondi non si affidano al caso. Quando prendono una decisione sanno come fare per creare le condizioni favorevoli al loro obiettivo perché hanno abbastanza denaro per indirizzare la storia. Se puntano su un'operazione al ribasso, in un primo momento si muovono con circospezione, cercano di piazzare le loro vendite senza dare nell'occhio. Poi quando stabiliscono che il prezzo deve crollare danno un'accelerazione all'offerta e il gioco è fatto. La massa di offerta insospettisce chi frequenta le borse: se tutti vendono una certa roba vuol dire che non vale niente, meglio starne alla larga. Ma proprio perché nessuno compra, il prezzo scende davvero e il timore si trasforma in realtà esattamente come volevano i burattinai.
Ovviamente questa è solo una semplificazione delle mille diavolerie che la finanza moderna si è inventata per guadagnare sulla dabbenaggine della moltitudine di piccoli risparmiatori che si aggirano per le piazze finanziarie. Ma quasi sempre la loro strategia si basa sulla psicologia di massa. Ottimismo e pessimismo, fiducia e paura sono i grandi alleati dei burattinai della finanza e quando stabiliscono che a loro serve un sentimento o l'altro si attivano con i loro potenti mezzi per provocarlo. La speculazione al ribasso si nutre della paura, e immediatamente l'intero sistema informativo cerca di amplificarla con titoli tipo: “I mercati non credono nel sistema Italia, prezzi in picchiata”.
Smettiamola di parlare di mercato: anche lì c'è una massa manovrata e una minoranza che manovra e né l'una né l'altra crede in qualcosa ad eccezione dei soldi. Ai fondi europei, americani, chissà forse anche cinesi, non importa niente di cosa succederà alla Grecia o all'Italia. Non si preoccupano neanche di cosa succederà all'economia mondo di cui fanno parte anche loro. La loro è una logica da pirateria: attaccano, rubano e scappano. Che poi la nave affondi o riprenda a navigare non è affar loro.
Va comunque sottolineato che nella prima fase, il guadagno degli speculatori non si realizza alle spalle dello stato, ma degli altri soggetti privati che svendono i loro titoli per effetto della paura. Il danno per lo stato arriva in un secondo momento, allorché si ripresenta sul mercato finanziario per ottenere nuovi prestiti. A questo punto scatta la seconda strategia di arricchimento degli speculatori, che invocano la sfiducia nei confronti dello stato per pretendere interessi più alti sui nuovi prestiti richiesti. Considerato che per l'Italia ogni punto di aumento percentuale degli interessi corrisponde ad un maggiore esborso di 35 miliardi di euro, si capisce la preoccupazione per gli attacchi speculativi.
Ma va precisato che la speculazione è possibile solo perché la legge la consente. Niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere dei provvedimenti che impediscono gli attacchi speculativi almeno sui titoli pubblici. Per farlo, basterebbe avere il coraggio di mettersi contro il potere finanziario che però i politici non hanno, perché per rimanere al potere non è del popolo che hanno bisogno, ma della complicità del potere economico. Del resto si sa che molti politici hanno i piedi contemporaneamente in due scarpe: quella della politica e quella degli affari. Due casi per tutti: Matteo Colaninno, al tempo stesso deputato PD e vice presidente del gruppo Piaggio, e Silvio Berlusconi, al tempo stesso deputato PDL, presidente del Consiglio e principale azionista di Fininvest. Dunque non deve stupire se la consegna dell'intero arco parlamentare è piegarsi al ricatto dei mercati e affrettarsi a fare delle manovre correttive che hanno lo scopo di convincere i mercati che lo stato italiano è un debitore affidabile. Un debitore, cioè, disposto a fare tirare la cinghia al suo popolo pur di pagare gli interessi ai creditori.
La disponibilità dei nostri politici a calare le braghe è senza limiti e non protestano neanche quando gli interessi si fanno così esosi da correre il rischio che lo stato soccomba. Del resto alle banche questa prospettiva non sembra interessare, anzi forse è proprio ciò che vogliono, come è nella politica di molti strozzini a cui non interessa tanto cosa possono guadagnare dagli interessi, ma cosa possono ricavare dalle spoglie del debitore. Questa è la terza strategia di arricchimento degli speculatori.
In molti paesi del Sud del mondo è abituale che gli strozzini cedano prestiti ai piccoli contadini ad interessi da capogiro in modo da dissanguarli e fare scattare la trappola alla prima rata non pagata. A quel punto inviano avvocati, notai e sicari, ciascuno con la propria arma di ricatto, per costringere i contadini a chiudere la partita cedendo i propri averi. E se il debitore non ha niente da dare possono prendersi lui stesso in ostaggio riducendolo in schiavitù.
Nei confronti degli stati indebitati si assiste alla stessa scena. Nelle loro capitali arrivano emissari di ogni genere, della Banca Centrale Europea, del Fondo Monetario Internazionale, delle società di rating, tutti con la stessa missiva: “pagate ciò che il mercato vi impone e se non potete pagare, svendete”.
Soprattutto “svendete” perché il vero disegno di mercanti, banche, assicurazioni, imprese di servizi, tutti intrecciati fra loro come serpenti in amore, è di mettere le mani sulle proprietà degli stati. Vedere tanta ricchezza e non poterla toccare, alla stregua di un frutto proibito, è una sofferenza indicibile, da sempre si scervellano per impossessarsene. Così si scopre che si scrive debito, ma si pronuncia privatizzazione, il sogno eterno dei mercanti di accaparrare palazzi, spiagge, parchi, isole, ma anche acqua, scuola, sanità, elettricità, gas, strade e tutto il resto che gli stati possiedono e gestiscono. Beni comuni che la struttura pubblica mette gratuitamente a disposizione di tutti per il bene di tutti, ma che i mercanti vogliono per sé per ricavarci profitto.
R. Dobbiamo prendere coscienza che il debito pubblico è un nodo che rischia di compromettere lo stato sociale dei prossimi trecento anni. E sicuramente lo è se la parola d'ordine di destra e sinistra continua ad essere “restituire il debito senza colpire i ricchi”. Tant'è si perseguono due sole strade, entrambe esplosive: la riduzione delle spese sociali e la svendita del patrimonio pubblico.
Si giustifica il taglio alle spese sociali con l'argomentazione che il primo obiettivo di risanamento della finanza è evitare di accumulare altro debito. Il che si ottiene col pareggio di bilancio, ossia con una riduzione delle spese sufficiente ad avere di che pagare gli interessi. Se fossimo governati da partiti che hanno a cuore l'equità e il benessere dei cittadini, le manovre correttive sarebbero realizzate aumentando le tasse sui ricchi e tagliando le spese inutili e dannose come quelle militari e i privilegi della politica. Ma oggi né destra, né sinistra hanno a cuore il bene comune e sia l'una che l'altra cercano di raddrizzare i conti pubblici accanendosi verso i redditi medio-bassi e tagliando le spese per il personale, per l'istruzione, per l'assistenza, per i comuni che si occupano delle politiche sociali a livello locale. Ed ecco il taglio di 8 miliardi di euro alla scuola nel triennio 2009-2011; di 10 miliardi alla sanità dal 2011 al 2014, di 15 miliardi di euro a regioni e comuni nello stesso periodo.
Ma la preda che governo, confindustria e Unione Europea sono assolutamente intenzionati a spolpare è la previdenza sociale. Eppure tutti sanno che il nostro sistema previdenziale è fondamentalmente in equilibrio. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2009, dimostrano che il saldo tra le entrate contributive ele prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali è in attivo per 27,6 miliardi di euro, pari all'1,8% del Pil. Solo un artificio contabileconsente alla Corte dei Conti di affermare che il sistema previdenziale è in deficit, addirittura di 77 miliardi nel 2010. Ma ciò dipende dal fatto che il fondo previdenziale è usato anche per il pagamento delle pensioni sociali e dei sussidi di disoccupazione che dovrebbero essere a carico della fiscalità generale. In realtà l'accanimento verso il sistema previdenziale non è dovuto alla sua debolezza, ma alla sua solidità. Nel 2010 i versamenti per contributi sociali sono ammontati a 214 miliardi di euro, quasi un terzo delle entrate totali dello stato. Se solo una parte potesse essere sottratta al pagamento delle pensioni, si potrebbero risolvere molti problemi senza mettere le mani nelle tasche dei ricchi.
In ogni caso va tenuto presente che il pareggio di bilancio è solo uno degli obiettivi. L'altro è l'abbattimento del debito accumulato, la famosa restituzione del capitale in nome della quale si impongono ulteriori sacrifici. Ma tutto ha un limite e anche i politici sanno di non poter restituire 1900 miliardi di euro solo con i tagli alle spese, perciò ricorrono alla vendita del patrimonio pubblico esattamente come si fa in famiglia che dopo aver tagliato sul riscaldamento, sul cinema, sul telefono, si vendono le proprietà di famiglia. Tant'è la parola d'ordine è privatizzare e solo per miracolo, grazie al referendum di maggio, abbiamo salvato l'acqua. Ma il decreto di agosto 2011 prevede misure per la privatizzazione di tutte le municipalizzate, mentre il provvedimento per l'introduzione del federalismo, varato nel 2010, trasferisce i beni demaniali ai comuni con licenza di venderli per il risanamento delle casse locali. Di questo passo ci troveremo una comunità nazionale senza più un edificio, un parco, una strada, un'azienda pubblica che garantisca qualsivoglia servizio gratuito a favore di tutti. Così stiamo recitando il requiem dell'economia del bene comune, ricordandoci che una volta dilapidata ci vorranno secoli per ricostruirla.
Fonti: dpr 98/2011 convertito in legge 111/2011; dpr 138/2011 convertito in legge 148/2011; Felice Roberto Pizzuti, Pensioni, perchè è giustoindignarsi, il Manifesto 27.10.2011; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Decreto legislativo n.85 del 28 maggio 2010.
(a cura del Centro Nuovo Modello di Sviluppo)
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