Ma ovviamente le elezioni non sono l’unico motivo del congelamento delle trattative. Il fatto è che restano ancora aperti molti punti spinosi alla tavola delle trattative e sui quali l’Islanda sarebbe costretta a fare delle concessioni economiche a Bruxelles per entrare nel club dei 27 (presto 28 con la Croazia).
E in tempo di crisi si tratta di decisioni indigeste da far mandare giù agli elettori. In primis le nuove regole su pesca e agricoltura, due settori per i quali oggi l’isola fa a modo suo non dovendo obbedire alle regole europee. Una situazione non sempre idilliaca, come dimostrano le tre “guerre del merluzzo” con la vicina Gran Bretagna sempre sui diritti di pesca (1958, 1972 e 1975). A dire il vero l’Islanda non ha mai avuto l’Europa nel cuore, visto che all’Ue ci si è avvicinata solo nel 2009 in seguito allo scoppio del terremoto finanziario che scosse l’isola e spinse il primo ministro islandese, Jóhanna Sigurðardóttir, ad affermare che l’ingresso nell’Unione europea e l’adozione della moneta unica avrebbero costituito “la migliore opzione” per il Paese.
Ecco allora che nel luglio 2009, una ristretta maggioranza parlamentare autorizza il governo a intraprendere i negoziati per l’ingresso dell’Islanda nell’Unione europea. La Commissione europea ha allargato le braccia alla nuova candidata nel febbraio 2010, affermando che l’Islanda “condivide appieno i valori dell’Unione, ha una democrazia antica e solida, rispetta i diritti umani ed ha recepito già molti elementi del diritto comunitario per via della sua adesione allo Spazio economico europeo e all’Area Schengen“.
Ciononostante gli islandesi (circa 320mila) non hanno mai visto di buon occhio Bruxelles. Se non ci fosse stato il terremoto del 2008, infatti, molto probabilmente l’isola non avrebbe mai intrapreso i negoziati con l’Ue (oggi risultano adempiuti 11 capitoli su 30). Ma tra il 2008 e i 2009 la storia dell’Islanda cambia. A causa di una politica di indebitamento avventata, nel corso del 2008 alcuni istituti di credito collassano (Glitnir Bank, la banca più grande, viene nazionalizzata nel settembre 2008), la moneta crolla (del 37% in un anno) e la Borsa sospende tutte le attività: il Paese viene dichiarato in bancarotta.
Questo crollo fa andare in fumo anche svariati miliardi di risparmiatori inglesi ed olandesi, tanto che il parlamento è costretto a proporre una legge che prevede il risanamento del debito attraverso il pagamento di 3,5 miliardi di euro che avrebbe gravato su ogni famiglia islandese, mensilmente, per la durata di 15 anni e con un tasso di interesse del 5,5% (prestito internazionale). In seguito ad una quasi rivoluzione popolare, nel febbraio 2011 il presidente Olafur Grimsson annuncia un referendum con il quale viene praticamente chiesto ai cittadini: “Volete pagare di tasca vostra i guai delle banche?”. Scontata la risposta: a dire no al pagamento è il 93% dei voti. Al giubilo popolare isolano segue una denuncia (tuttora pendente) alla Corte di Giustizia Ue ai quali si sono rivolti gli altrettanto innocenti cittadini inglesi ed olandesi rimasti beffati. Ovviamente un’eventuale adesione all’Ue renderebbe impossibili simili rifiuti, un motivo in più, avranno pensato a Reykjavik, per prendere tempo.
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