Attenti, siamo al capolinea: dietro al crac mondiale della finanza, quello che oggi ci opprime con tagli drammatici al nostro benessere, c’è la fine di un’epoca, quella del capitalismo che si è globalizzato per sopravvivere e ora si ritorce contro i lavoratori dell’Occidente, ormai impoveriti e ridotti a consumatori con le tasche vuote. «Per spiegare la crisi si parla sempre di banche e di debito pubblico, di finanza piratesca e di speculazioni, ma tutto questo non è che la deriva di un’economia: come le metastasi di un tumore, non sono che lo sviluppo “naturale” del cancro stesso», afferma la saggista Sonia Savioli. Alla base di qualsiasi economia ci sono due cose: risorse e lavoro umano. «In un’economia capitalista, e cioè in una società di dominio e competizione, le risorse materiali vengono sottratte all’ambiente e ai popoli che di esse vivevano senza alcuno scrupolo e senza alcun limite». Quanto al lavoro, «significa il maggior sfruttamento possibile, considerati i rapporti di forza».
Inevitabile, aggiunge la Savioli sul “Cambiamento”, che la competitività capitalistica cerchi sempre di superare i limiti, di “crescere”: «La globalizzazione è stato un salto quantitativo e qualitativo in tale crescita: i capitalisti di tutto il mondo hanno cominciato a “de-localizzare”». Neologismo che nasconde una verità indecente: «Significa far produrre le proprie merci in paesi asserviti e impoveriti, per non pagare i lavoratori ridotti ormai a poco più che schiavi». All’inizio, la globalizzazione ha sospinto vertiginosamente i consumi nel mondo occidentale, quello dominante: «I paesi asserviti ci davano le loro preziose materie prime in cambio di quasi nulla, le loro popolazioni asservite lavoravano per i nostri capitalisti (detti “imprenditori”) in cambio di quasi nulla. Così noi per quattro lire potevamo comperare cibo e benzina, scarpe e vestiti, borse e mobili». Qualche inconveniente si manifestò subito: «I nostri contadini, per esempio, si trovarono a dover fronteggiare la concorrenza dei prodotti agricoli che venivano dai paesi schiavi e che costavano cifre da vergogna. Arrendersi o perire. Furono costretti a rinunciare all’agricoltura o ad abbassare i prezzi a livelli schiavistici».
L’Italia, aggiunge Sonia Savioli, è piena di piccoli agricoltori che fanno il doppio lavoro: un lavoro fuori dalla loro azienda per mantenere la famiglia, l’altro nella loro campagna perché non hanno cuore di abbandonarla. «Ma finché si trattava dei contadini, questi fantasmi della nostra civiltà che danno da mangiare a tutti, nessuno si mise a parlare di crisi». Del resto, «come si poteva parlare di crisi mentre il potere d’acquisto degli italiani cresceva vertiginosamente e ci rotolavamo in un’orgia di consumi superflui e spreco?». Infatti, «i bambini indiani producevano le nostre scarpe e i nostri tappeti, quelli turchi i nostri golfini, gli schiavi della Del Monte i nostriananas». E intanto, «noi lavoravamo come operai elettronici, impiegate, architetti d’interni, programmatori informatici».
Poi, però, il lavoro è andato scemando man mano che sono state “delocalizzate” tutte le attività che era conveniente trasferire in paesi a basso costo. «Tutto questo non poteva avere che una conseguenza a lungo andare: la disoccupazione dei lavoratori occidentali». Se produzione, terziario e persino servizi come i call center vengono spostati nei paesi in cui gli operai sono sottopagati, a quel punto i lavoratori occidentali possono scegliere solo tra disoccupazione o condizioni di lavoro da terzo mondo: «Che fine faranno i consumatori occidentali, che sono stati le colonne della “crescita” e dello “sviluppo”?». Destino segnato, il nostro: fatale declino, causato dalla scomparsa di lavoratori adeguatamente remunerati. «Con quali soldi il disoccupato, il co.co.co., il sottopagato possono pagare i mobili anche se fatti in Indonesia, le scarpe pachistane, le borse cinesi?».
Crollo già scritto, come quello di qualsiasi altro impero della storia: «La globalizzazione neoliberista era solo l’inizio dell’implosione finale: un’economia basata sui consumi superflui e frenetici è riuscita, per la brama insaziabile di sviluppo e crescita insita in lei stessa, a distruggere le basi sulle quali poggiava», cioè «il consumatore occidentale e il consumismo», pure sviluppatosi slealmente, sulla pelle del terzo mondo: «Quell’impoverimento era una delle condizioni dell’aumento del profitto capitalista e della ricchezza occidentale». E adesso? Si potrebbe dire: chi la fa, l’aspetti. «Non ci siamo mai preoccupati delle crisi che il neoliberismo imponeva ai paesi di Africa, Asia, America Latina, est Europa. Non abbiamo lottato per migliori condizioni di lavoro di operai o braccianti o minatori peruviani o senegalesi. Se l’avessimo fatto, forse non avremmo subito la loro involontaria concorrenza; forse il neoliberismo sarebbe crollato prima di distruggere ambiente e società umana; forse la storia avrebbe preso un altro corso».
Ora, aggiunge Sonia Savioli, lo sfruttamento disumano di quei popoli si ritorce contro di noi, che finora ne avevamo beneficiato. «Adesso anche i nostri governi, del tutto asserviti agli interessi del grande padronato mondiale, ci “svendono” ai loro e nostri padroni: riducono salari e servizi sociali, aumentano tasse e vincoli in modo da distruggere anche la piccola impresa privata e il piccolo commercio, eliminando i diritti dei lavoratori». Tutto questo non farà che accelerare la conclusione: impoverire i ceti medi, dopo i lavoratori salariati, non potrà che diminuire anche i consumi che finora avevano retto. Quanto al mitico debito pubblico, divenuto un incubo con la perdita della sovranità monetaria e l’aberrazione del Fiscal Compact, l’autonomia di spesa dello Stato ridotta a zero grazie ai trattati-capestro firmati a Bruxelles, la Savioli non fa distinzione tra debito “utile”, cioè investimento a deficit positivo, e debito “canaglia”, quello fondato sul puro spreco, sull’abnorme spesa militare o sulle “grandi opere inutili” come il Tav. Il punto è un altro, sostiene l’analista: «Non è affatto vero che si cerchi di diminuire quel debito».
«Quello che il nostro governo cerca di fare, dato che le vacche grasse sono finite e non si possono più salvare capra e cavoli, è far mangiare i cavoli alla capra. I cavoli siamo noi e ci tolgono le pensioni, i trasporti pubblici, gli insegnanti di sostegno e le mense universitarie, oltre a tassarci la casa, il campo e poi tutto, compresa l’acqua del rubinetto». Attenzione: «La capra sono i padroni, che prendono soldi dallo Stato per fare i raddoppi delle autostrade, i viadotti e i Tav, gli inceneritori, e a cui vengono regalate le ferrovie». In questa crisi, le banche hanno supportato il credo dello sviluppismo capitalista, e cioè: rubare ai poveri per dare ai ricchi. «Perché quello che nessuno dice è che le banche appartengono agli stessi che costruiscono autostrade e ferrovie ad alta velocità, dighe e palazzoni, catene di ipermercati. Le banche prestano i nostri soldi ai loro padroni per costruire i palazzoni o le catene di ipermercati; se poi i palazzi non si vendono o gli ipermercati sono in perdita, lo Stato rimpingua le banche coi nostri soldi», e il cerchio si chiude. Mentre il mondo, là fuori, sta letteralmente rischiando il collasso, mettendo a rischio le uniche cose su cui si basa la nostra sopravvivenza: suolo, aria, acqua.
tratto dal sito LIBRE
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