A meno di cambiamenti radicali nella struttura portante dell’eurozona (unione fiscale, banca centrale pubblica, nuovo governo centrale che si occupa dei trasferimenti finanziari all’interno dell’area monetaria), il conto alla rovescia per la fine dell’euro è già partito da un bel pezzo.
La certezza di questa affermazione risiede nel meccanismo anomalo di circolazione dei capitali nei paesi dell’eurozona e dal modo utilizzato dai tecnocrati e dai politici europei per mantenere in vita questo schema ampiamente squilibrato e disfunzionale: alla base di tutta la piramide del debito c’è soltanto la capacità dei cittadini europei di procurarsi reddito da soli offrendosi ai mercati a qualunque prezzo e la loro volontà di continuare a pagare le tasse. Nel caso in cui uno di questi due fattori o entrambi vengano meno, come accade oggi che siamo nel pieno di una spirale recessiva, l’immenso edificio d’argilla è costretto ad implodere miseramente, perché non esiste nessuna entità terza economica o politica (quello che un tempo chiamavamostato o governo federale) che possa compensare e alleggerire i sacrifici dei singoli cittadini, creando una barriera e un filtro fra questi ultimi e il mercato.
Nel caso di uno stato sovrano, per esempio gli Stati Uniti, il debito pubblico è soltanto una cifra che lampeggia sul computer della banca centrale, ma in realtà non significa niente e potrebbe anche essere tranquillamente tolto dalle voci del bilancio ufficiale dello stato.
Nel caso dell’Italia e dei paesi dell’eurozona invece il debito pubblico è una grandezza di primaria importanza perché lo stato non ha la certezza di poterlo ripagare essendo denominato in una moneta straniera (l’euro) e il governo deve assicurare continuamente tutti gli investitori che sarà in grado di rimborsarlo fino all’ultimo centesimo, tramite il prelievo fiscale.
Ma è essenziale capire fin da subito che la scelta di rendere il debito pubblico un problema per lo stato non è assoluta o obbligatoria o universale, e non ha alcun carattere di scientificità o correttezza tecnica e contabile, dato che nessun economista o tecnocrate è riuscito mai a dimostrare con dati certi che rinunciare ad un’arma di politica economica e monetaria così straordinaria e potente come il debito pubblico sia un bene per la nazione. Anzi, visto i disastri attuali dell’eurozona che si trova continuamente sotto il fuoco incrociato dei mercati, la scelta si è rivelata più che mai infausta e infelice. Ad ogni modo questa decisione è volontaria: lo stato italiano, per mezzo della sua classe dirigente politica ed economica, ha scelto autonomamente e deliberatamente di privarsi della sua sovranità monetaria e della capacità di creare soldi dal nulla quando ha deciso di entrare nell’eurozona.
Dalla data di adesione definitiva all’area euro, nel 2002, lo stato italiano non può più creare soldi dal nulla per finanziare la sua spesa pubblica secondo le necessità del momento, ma è costretto prima di spendere ad attendere l’incasso delle tasse o a chiedere in prestito questi soldi alle banche private a qualsiasi tasso di interesse imposto da queste ultime. In un solo colpo è stato in pratica azzerato qualunque spazio di manovra economica e indipendenza monetaria del governo nazionale, che come abbiamo sottolineato più volte pone parecchi limiti sulla reale presenza di una qualsiasi forma di democrazia compiuta in Italia: se uno stato non può più spendere all’occorrenza per il benessere dei suoi cittadini, la tutela del suo territorio, il rilancio della sua economia, la difesa dei diritti costituzionali, ma fa dipendere queste decisioni da altri (contribuenti, banche) non ha più le caratteristiche politiche e giuridiche di una democrazia, ma è un’altra cosa. E i nomi per definire quest’altra cosa abbondano e vanno dalla dittatura bancaria al fascismo finanziario, fino alla truffa legalizzata.
Ma entriamo nei dettagli dell’imbroglio e vediamo cosa accade nella pratica in Italia.
In una ipotetica situazione di pareggio di bilancio, la capacità di spesa dello stato è limitata dai soldi raccolti tramite il prelievo fiscale dai suoi cittadini. Tuttavia siccome i tempi di spesa del governo e quelli di incasso delle tasse sono differiti, l’Italia dovrà farsi finanziare nel frattempo dalle banche private, che in base ai loro requisiti e alle credenziali internazionali vengono di volta in volta autorizzate dal ministero delle finanze a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato. Per finanziare questa tipologia di spesa corrente, lo stato colloca generalmente titoli di debito a breve scadenza, come i BOT (Buoni Ordinari del Tesoro) a 1, 3, 6 mesi fino ad un anno. In questo primo giro di giostra lo stato corrisponde alle banche private un premio pari allo scarto di emissione: se lo stato piazza 2 miliardi di euro di BOT a tre mesi al rendimento del 2% significa che regala materialmente alle banche 40 milioni di euro prelevandoli dalle tasche dei cittadini. Moltiplicate questa cifra per tutte le emissioni di titoli a breve termine che si succedono durante l'anno e avrete chiara la dimensione del pacco dono confezionato per le banche.
Prima del 1992 e della firma dei trattati europei di Maastricht, quando lo stato italiano era ancora sovrano, il governo poteva finanziare la spesa corrente utilizzando lo scoperto del suo conto di deposito presso la Banca d’Italia, la banca centrale di emissione dello stato: non c’era nessuna regalia alle banche private, nessuna dipendenza. Tutti gli stati del mondo che hanno mantenuto intatta la loro sovranità monetaria, non gravano sulle spalle dei cittadini spese inutili e parassitarie come quelle descritte in precedenza, che sono dovute soltanto ad un semplice differimento temporale fra il momento dell’uscita e quello dell’entrata monetaria, ma non implicano una reale condizione deficitaria e debitoria dello stato.
Ad ogni modo, a parte questa prima concessione del tutto gratuita alle banche e l’obbiettivo del pareggio di bilancio che sarà per molti motivi di carattere tecnico e procedurale difficile da raggiungere nella pratica, l’Italia ha già un suo debito pubblico pregresso di circa 2000 miliardi di euro, formato perlopiù da titoli di stato a medio e lungo termine (BTP, Buoni Pluriennali del Tesoro), che quando arrivano a scadenza devono essererimborsati o rifinanziati, grazie all’intervento provvidenziale delle solite banche strategiche internazionali (sono venti in tutto quelli che hanno il titolo di specialisti, e i loro nomi li conosciamo bene da tempo). Queste banche strategiche avranno poi il compito di rivendere sul mercato secondario la parte dei titoli che non sono disposte a trattenere in proprio per limitare l’accentramento del rischio. Questo flusso di trasferimento dei titoli e del rischio arriva fino al cittadino privato, che decide di spostare una parte dei suoi risparmi nell’investimento sicuro (?) in titoli di stato recandosi presso la filiale della sua banca.
Come abbiamo già detto, lo stato italiano offre ai suoi creditori come unica garanzia di rimborso dei prestiti ricevuti la capacità di raccogliere un corrispondente quantitativo di tasse e indirettamente la disponibilità a mettere in vendita parte del suo enorme patrimonio pubblico per fare fronte ai propri impegni. Oltre a questi strumenti di inasprimento fiscale e riduzione della spesa e del patrimonio pubblico, non c’è altro che uno stato come l'Italia può fare per generare maggiori profitti sul suo territorio e ripagare i creditori. Più lo stato è efficiente nel settore tributario e nella lotta all’evasione fiscale, maggiori sono le opportunità di ricevere nuovi finanziamenti alle successive aste primarie di collocamento dei titoli, a prezzi ragionevoli. Quando questa peculiare funzione dello stato viene meno, si crea incertezza nei mercati e il rendimento richiesto per l’acquisto dei titoli e per la compensazione del rischio di investimento aumenta (il famoso spread, che misura il differenziale di rendimento fra i titoli italiani e quelli tedeschi).
Essendo completamente inerte dal punto di vista economico e monetario, lo stato italiano deve sperare che le condizioni per creare reddito, ricchezza e sviluppo all’interno dei suoi confini nazionali si formino da sole, spontaneamente, tramite accordi e investimenti privati, dato che maggior reddito privato significa maggiori entrate fiscali per lo stato. In un periodo di recessione economica come questo però diminuiscono i redditi, i consumi e gli investimenti e si riducono di conseguenza le entrate fiscali dello stato, che deve inventarsi sempre nuove tasse o tagli al patrimonio e alla spesa pubblica per sottrarre sia ricchezza dai cittadini che attività dai suoi bilanci da destinare unicamente al pagamento dei creditori.
Ovviamente questo processo di trasferimento non può durare all’infinito, perchè a meno di entrare casa per casa a pignorare le pentole e i materassi e di vendere il Colosseo, lo stato italiano non è in grado di prelevare in modo illimitato ricchezza ai suoi cittadini e al suo territorio. Unica via di salvezza per lo stato risulta che arrivi all’improvviso una nuova fase di crescita economica, che come vedremo dopo non si sa né da chi né da cosa sarà trainata. Malgrado le condizioni al contorno siano tutte sfavorevoli, i tecnocrati europei sono convinti per fede divina che prima o dopo questa crescita ci sarà. Punto.
Tuttavia dobbiamo sottolineare il primo grande paradosso della gestione dei titoli di debito di una nazione non sovrana: abbiamo detto infatti che le tasse servono a finanziare la spesa corrente e solo nel caso eccezionale in cui le entrate fiscali siano superiori alle uscite per spesa, questo avanzo primario straordinario può essere destinato al rimborso e alla riduzione del debito pregresso o strutturale. Quindi, a parte la limitata copertura dell’avanzo primario, cosa garantisce veramente la circolazione sui mercati dei titoli di stato a medio o lungo termine? Niente, assolutamente niente. Riprendendo il titolo di un famoso film si potrebbe dire “sotto il vestito chiamato BTP niente!”.
prima parte
tratto dal sito TEMPESTA PERFETTA
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