ora restituisca quei soldi
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Sul “Fatto Quotidiano” abbiamo chiesto a Bersani: restituisci quei 98.000 euro a Riva; perché non puzzino, non basta registrarli alla Camera. Perché un politico deve sempre domandarsi perché un imprenditore gli dà dei soldi, e soprattutto chi è l’imprenditore che gli dà quei soldi, e soprattutto che cosa si aspetta da quello che prende i soldi.
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di Marco Travaglio
Dicono che torna la politica e si riprende la sua autonomia. Ma, a leggere le carte dell’inchiesta Ilva: autonomia, quale? Rispetto a cosa?, viene da domandarsi. Perché di autonomia ce n’era poca. Anzi, i politici – e anche i tecnici – sembravano un po’ succubi della grande impresa: anche di quella che, come abbiamo sentito, in 15 anni ha fatto tre miliardi di utili sull’acciaio, mentre a Taranto morivano 1.600 persone all’anno perché l’Ilva non bonificava gli impianti. Ora, il governo, d’accordo con Napolitano, fa il decreto per neutralizzare le ordinanze dei giudici, “quarto grado di giudizio”: se il giudice decide una cosa che non piace, invece di impugnarla davanti al Riesame o alla Cassazione, si va dal governo che fa un decreto e la cancella, e nessuno fiata – a parte Di Pietro, che ormai è considerato un appestato.
L’altra sera, da Fazio, Bersani ha detto che c’è uno scontro fra poteri – pm da una parte, azienda dall’altra – e governo “espropriato”, naturalmente. Insomma, una guerra per bande: così ce l’ha venduta. E i “giornaloni” hanno ripetuto che c’è un’azienda che dà lavoro – beneficamente, munificamente – a migliaia di persone, costretta a chiudere da magistrati “impazziti” che vogliono distruggere migliaia di famiglie e l’intero sistema industriale: le famose “toghe verdi”. Nessuno dice che i giudici indagano da sette anni, sull’Ilva, e per sette anni la politica non ha fatto niente – anzi, ha fatto molto: ma a favore dell’Ilva, che ha continuato a inquinare e, producendo, a uccidere.
Ora che l’inchiesta è chiusa, cosa deve fare un giudice? Se prende un rapinatore di banche, fa tre cose: primo, gli toglie la pistola; secondo, gli sequestra il bottino; terzo, lo arresta. Se l’Ilva inquina e uccide, il giudice cosa fa? Sequestra l’arma del delitto: cioè gli impianti inquinanti. Sequestra il corpo del reato: cioè l’acciaio prodotto negli ultimi 4 mesi, visto che da luglio l’azienda non può tenere aperti gli impianti a caldo per produrre, ma solo per risanare – quindi quei prodotti non dovrebbero esistere. Terzo: arresta i responsabili. E qui le accuse sono associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’omicidio colposo plurimo, alla corruzione di una serie infinita di organi di controllo: ministero dell’ambiente, Arpa, Digos, commissione parlamentare rifiuti, giornalisti,sindacalisti, politici locali e nazionali, perfino il prete e il consulente tecnico della stessa Procura che avrebbe dovuto indagare.
A quel punto, l’Ilva cosa fa? Chiude gli stabilimenti: come se il rapinatore, una volta beccato, si mettesse a minacciare il governo, e il governo – invece di ricacciarlo indietro – gli facesse un decreto per “confessarlo”, insomma, per chiedergli “Quante volte, figliolo, hai rapinato? Bene, se hai rapinato in passato non importa, non farlo più per il futuro”. Così Taranto diventerebbe una zona franca, se il decreto fosse questo: senza legge, come già le discariche e l’inceneritore di Acerra – ma allora il decreto l’aveva fatto Berlusconi e c’era qualcuno che protestava; adesso decidono Monti e Napolitano, e tutti zitti. Se la gente sapesse che cosa si è scoperto nell’inchiesta della Procura e della Guardia di Finanza che si intitola “Ambiente Svenduto”, forse inorridirebbe. Ma pochi lo sanno, perché non c’è nessuno che commenta la sostanza dell’inchiesta, cioè il verminaio che emerge dalle carte. Perché ci sono dentro un po’ tutti: politici, tecnici, sindacalisti, ma anche molti giornalisti – o pochi giornalisti, speriamo – che dovrebbero raccontare.
Nel 2006, alla vigilia delle elezioni, Emilio Riva – cioè il signore di 86 anni che dieci anni prima ha comprato l’Ilva dallo Stato a prezzi stracciati, senza obbligo di bonifica – stacca un assegno di 345.000 euro per la campagna elettorale di Forza Italia e uno di 98.000 euro per quella di Pierluigi Bersani – non per il partito di Bersani, cioè i Ds: per lui proprio, che era “responsabile industria” del partito e che stava diventando ministro dello sviluppo economico, cioè il controllore politico dell’Ilva. Altri 100.000 euro, in quattro anni, li regala a Bersani la Federacciai, di cui è vicepresidente uno dei figli di Riva. Bersani non fa una piega e incassa, naturalmente registrando – ci mancherebbe – il contributo alla Camera. Eppure, Riva era già stato condannato per l’inquinamento dell’Ilva. Oggi è ai domiciliari, mentre il figlio Fabio dovrebbe stare in carcere ma è riparato all’estero. E’ indagato anche il prefetto Ferrante, già candidato del Pd a sindaco di Milano e ora presidente dell’Ilva – un uomo dello Stato.
Da anni, secondo l’accusa, l’Ilva nasconde il disastro ambientale, grazie ai traffici di un signore bravissimo, un genio, il capo delle relazioni esterne Girolamo Archinà. Riva, il vecchio, in un’intercettazione gli dice: «Lei, Archinà, è il maestro degli insabbiamenti». E Archinà, che è pagato apposta, dice: «Bisogna tenere tutto sotto coperta». E infatti ci riesce, vediamo come. Due anni fa, l’Ilva aspettava l’Aia, l’autorizzazione ambientale, da parte del ministero dell’ambiente – che era retto dalla Prestigiacomo e il cui direttore generale, da un’eternità, è il ministro attuale, Clini. Ma l’Aia non arrivava perché l’azienda sforava i limiti di legge sulle emissioni inquinanti. Allora, l’avvocato dell’Ilva cosa fa? Fa la spola fra Taranto e il ministero: dice che i Riva hanno scritto a Gianni Letta, racconta (Fabio Riva) come pensa di pilotare “questa roba della commissione”del ministero, che deve dare appunto l’autorizzazione. Lui ha chiesto di ignorare le analisi dell’Arpa, l’agenzia regionale per l’ambiente, sulle emissioni fuorilegge del benzopirene, che è cancerogeno; Riva junior lo incoraggia e dice: «Due casi di tumore in più all’anno cosa vuoi che siano? Una minchiata».
L’avvocato minaccia il responsabile del ministero. Dice: su ‘sta roba salta la Prestigiacomo, e noi mettiamo in mobilità 5-6.000 persone. «Cosa dobbiamo fare di più? Ve l’abbiamo scritta noi…». Cioè, da queste parole, sembrerebbe che l’autorizzazione del ministero all’Ilva l’abbia scritta l’Ilva, e alla fine l’abbia firmata il ministero. Fabio Riva gongola: «Berlusconi ha fatto un regalo all’Ilva». Alla fine aggiunge: «Clini è uomo nostro». Clini smentisce di essersi mai occupato di quella cosa, la Procura smentisce di avere depositato intercettazioni con il nome di Clini, ma la “Gazzetta del Mezzogiorno” – che le ha pubblicate – dice che ci sono: evidentemente, può essere che non siano state depositate perché prive di rilevanza penale.
L’unico che ostacola i traffici dell’Ilva, a Taranto, è Giorgio Assennato, che è il direttore dell’Arpa, l’agenzia regionale per l’ambiente, e bisogna farlo fuori. Tutti si mobilitano: secondo il gip, il regista di questa operazione è direttamente il governatore Nichi Vendola, con la complicità – sostiene l’accusa – di sindacalisti della Cisl. Un giorno Vendola torna da un viaggio in Cina e chiama subito Archinà perché dica a Riva: mettiamo subito in agenda un incontro con “l’ingegnere”, state tranquilli, non è che mi sono scordato, l’Ilva è una realtà produttiva a cui non possiamo rinunciare – quindi «dobbiamo vederci: volevo dirglielo perché lei chiami Riva e dica che il presidente», cioè il governatore, «non si è defilato». Fabio Riva, in un’altra telefonata, esulta. E dice: «Ad Archinà, Nichi gli vuole bene». Archinà chiama il sindaco, Ipazio Stefàno – il “sindaco pistolero”, di Sel, vendoliano anche lui: è uno che gira armato, con la pistola – mica si scherza. Perché lo chiama? Perché il sindaco deve rimandare alle calende greche il referendum degli ambientalisti contro l’Ilva. E gli dice: la data più lontana possibile, eh, facci stare tranquilli. Stefàno scatta sull’attenti: tranquilli, va benissimo. E infatti adesso è indagato pure lui.
Archinà ha anche una talpa tra gli investigatori: un ispettore della Digos, che gli spiattella addirittura gli incontri segreti tra il procuratore Sebastio e i vertici dell’Arpa, e in cambio l’Ilva gli assume degli amici e glieli fa lavorare. Archinà chiama il direttore di un giornale locale e si complimenta per “la campagna” che sta facendo a favore dell’Ilva. E il giornalista, anche lui sull’attenti, risponde: «E che mi tieni a fare, a me?». Eh: che ci sta a fare? Archinà vuole far cambiare idea anche al presidente della commissione rifiuti, Gaetano Pecorella: non ci riuscirà. Perché? Perché Pecorella sosteneva, giustamente, che le bonifiche dell’Ilva le doveva pagare l’Ilva, e non lo Stato. E allora gli scatenano contro un deputato del Pdl. Poi la commissione si reca in visita a Taranto (la commissione parlamentare), ma Archinà rassicura i suoi: «E’ tutto pilotato». Naturalmente, può essere che volesse semplicemente farsi bello, che esagerasse, però Archinà aveva “a sua disposizione” un bel po’ di parlamentari di centrodestra e di centrosinistra.
Un giorno, per esempio, ha mandato una mail al deputato del Pd Ludovico Vico: gli aveva proprio scritto già un emendamento che doveva servire a depenalizzare un reato che punisce le emissioni inquinanti. Archinà racconta poi che Riva – il vecchio, il patriarca – aveva scritto un’e-mail anche a Bersani: non sappiamo se poi Bersani l’abbia ricevuta, ma – dicevano – gliel’ha mandata «perché non deve fare il coglione». Cioè: faceva leva, evidentemente, su una conoscenza che risaliva al tempo in cui c’era stato quel finanziamento elettorale. Che cosa gli chiedeva, Riva, in quella e-mail? Di bloccare le battaglie ambientaliste di un senatore del Pd, che è anche di Legambiente: il senatore Roberto Della Seta, molto noto, che si opponeva a una legge “ad aziendam”, una legge che doveva (tanto per cambiare) favorire l’Ilva dalle sue emissioni di benzopirene. Della Seta dice che, poi, Bersani su di lui non ha fatto nessuna pressione. Ma l’onorevole Vico – in un’intercettazione – tuona, addirittura, dicendo: «A questo punto, alla Camera, dobbiamo fargli uscire il sangue, a Della Seta».
Anche Vendola dice di non aver torto un capello al direttore dell’Arpa, che però dice che era stato “convocato” da un addetto di Vendola, che gli aveva fatto una lavata di capo. Ecco: senza le intercettazioni, noi conosceremmo soltanto le dichiarazioni pubbliche dei politici del centrosinistra, che poi sono quelli che nei dibattiti televisivi si sciacquano sempre la bocca con il lavoro e l’ambiente. Non sapremmo, invece, che – appena si spengono i riflettori – sono tutti lì al telefono coi dirigenti dell’Ilva: molto più docili, con i “padroni delle ferriere”, di quanto non vogliano far credere. Non c’è nessun reato, magari, in tutto questo. Ma forse c’è qualcosa di peggio: cioè la doppiezza, l’incoerenza tra quello che si vede sulla scena e quello che avviene fuori scena. Etimologicamente, si chiama: osceno. Ecco, “osceno” vuol dire “fuori scena”: accade sempre così, quando c’è il rapporto tra politica e affari, che è il nodo irrisolto della nostra democrazia.
Per questo, sul “Fatto Quotidiano” abbiamo chiesto a Bersani: restituisci quei 98.000 euro a Riva; perché non puzzino, non basta registrarli alla Camera. Perché un politico deve sempre domandarsi perché un imprenditore gli dà dei soldi, e soprattutto chi è l’imprenditore che gli dà quei soldi, e soprattutto che cosa si aspetta da quello che prende i soldi. Non deve mettersi in condizioni di dovere qualcosa a qualcuno: soprattutto se il suo partito naviga nell’oro dei rimborsi elettorali; soprattutto ora che Riva è agli arresti domiciliari per quel po’ po’ di accuse; soprattutto se ha il figlio latitante; soprattutto se è indagato a Milano per un’evasione fiscale da 52 milioni. E soprattutto se uno che deve diventare ministro dell’industria, prima di diventarlo prende dei soldi da un’industria. E soprattutto: se uno è sempre lì a menarla con il primato e l’autonomia della politica. Ma autonomia da cosa e da chi: da chi t’ha pagato la campagna elettorale?
(Marco Travaglio, testo del video-editoriale della puntata del 29 novembre 2012 di “Servizio Pubblico”, trasmissione condotta su La7 da Michele Santoro).
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