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sabato 5 gennaio 2013

COSA ACCADE AI TASSI D'INTERESSE ED AI MUTUI IN CASO DI USCITA DALL'EURO


L’economia è una disciplina della scienza sociale molto complessa e articolata, questo lo abbiamo ribadito più volte. Più ti addentri nei suoi meandri e più ti accorgi che è piena di snodi, maglie, matasse, connessioni, correlazioni spesso difficili da districare e dipanare con chiarezza ed efficacia. Per questo motivo, per affrontare meglio l’analisi, gli economisti lavorano quasi sempre utilizzando dei modelli che consentono di semplificare i comportamenti individuali e accorpare le grandezze aggregate(consumi, investimenti, spesa, offerta, domanda, inflazione etc). I modelli hanno la stessa importanza e funzione delle carte geografiche per un esploratore, perché servono ad indicare una rotta, un percorso: maggiore è la scala del modello, il grado di dettaglio e maggiore sarà la visione complessiva di tutte le strade percorribili. Ogni economista inoltre enfatizza nel modello la caratteristica che vuole di più evidenziare, così come i cartografi fanno mappe politiche, geografiche, morfologiche, toponomastiche, stradari, a seconda di quelli che sono gli usi richiesti dai fruitori. Tuttavia, quando gli economisti cercano di costruire modelli basandosi su modelli precedenti e non direttamente sulla realtà avviene il fenomeno di distorsione, di corto circuito e di inarrestabile alterazione dei risultati ottenuti che ben conosciamo: finisce la fase di utile e interessante descrizione dei processi reali e inizia quella della modellizzazione del modello, della mistificazione.

Le mappe economiche basate su modellizzazioni successive portano quasi sempre fuori strada, sia perché partono spesso da premesse iniziali sbagliate, sia perché le direzioni, diramazioni, destinazioni di arrivo hanno davvero pochi riscontri con ciò che accade intanto nella realtà o si evince dai dati sperimentali. In un precedente articolo, abbiamo visto per esempio come la correlazione che molti esploratori sprovveduti (definiti come dei veri e propri automi che ripetono meccanicamente sempre gli stessi concetti senza mai prendersi la briga di ragionare prima di parlare) fanno fra svalutazione e inflazione è nella maggior parte dei casi infondata e trova davvero pochi agganci con i dati sperimentali della realtà. Senza dubbio possiamo dire che entrambe queste grandezze influiscono a definire il “prezzo” o il valore di una certa moneta, ma partendo da presupposti diversi: l’inflazione misura il valore interno della moneta tramite il potere di acquisto, la svalutazione (o rivalutazione) serve invece a quantificare il valore esterno della moneta tramite il tasso di cambio (esiste poi una terza variabile, il tasso di interesse, che identifica il valore intertemporale di una moneta). Basterebbe già riflettere a fondo su queste definizioni per capire che fra svalutazione e inflazione c’è in mezzo un oceano di elementi, fattori, variabili, caratteristiche produttive di un certo sistema paese che impediscono la postulata e quanto mai assurda relazione diretta di causa effetto fra svalutazione e inflazione. Ma per capire meglio quanto già detto e dimostrato, ricorriamo ad un semplice esempio.

Immaginiamo di trovarci all’interno dell’azienda italiana X che produce un certo prodotto Y. Senza addentrarci troppo nelle caratteristiche produttive dell’azienda, ipotizziamo che la struttura dei costi all’interno dell’azienda sia quella descritta dalla tabella sotto, dove viene fatta una prima importante distinzione fra i costi variabili, che cambiano in base alla quantità di beni prodotti, e costi fissi di struttura, che non cambiano al variare della quantità di produzione ma soltanto quando l’azienda effettua degli investimenti per aumentare o diminuire l’insieme dei suoi fattori produttivi (capitale e lavoro). Immaginiamo adesso che l’Italia decida di uscire dalla zona euro e di ritornare alla lira, che come abbiamo già dimostrato con l’applicazione della teoria della parità relativa del potere d’acquisto dovrebbe subire una svalutazione complessiva del 20% circa rispetto all’euro. Cosa cambierà effettivamente all’interno dell’azienda, nella struttura dei costi e dei profitti? Vediamolo utilizzando dei numeri volutamente semplificati.

Immaginiamo che l’azienda X produca a regime 100 prodotti X in un anno con un costo di produzione complessivo pari a 100 distribuito nella seguente maniera: 20 da imputare alle materie prime, 20 al costo del personale e 10 a tutte le altre voci di costo. Il costo unitario per prodotto è uguale ad 1 e ipotizzando unr endimento atteso da parte dell’imprenditore pari al 10%, il prezzo di vendita del bene sarà di 1,1, con un margine operativo lordo pari a 10 (l’utile netto si ricava dopo il pagamento delle imposte, che per il momento consideriamo ininfluenti in quanto fattore esogeno e non endogeno alla produzione). La svalutazione della liraprovocherà evidentemente per l’azienda un aumento di prezzo soltanto per quella parte di costi riferita ai beni e servizi importati dall’estero, che ragionando per assurdo potranno essere i seguenti: materie prime,lavorazioni esterne e acquisto servizi produttivi. Ripetiamo che stiamo ragionando per assurdo, immaginando che l’azienda importi tutte le materie prime, appalti le lavorazioni esterne e acquisti i servizi produttivi, come per esempio l’energia, dall’estero. Nella realtà sappiamo che non è così, perché nessuna azienda italiana avrà mai una così forte dipendenza dall’estero, potendo acquistare parte delle materie prime e dei servizi anche in suolo nazionale. Facendo però questa approssimazione per eccesso, avremo che il costo delle materie prime sarà aumentato da 20 a 24 (+20% di svalutazione), il costo delle lavorazioni esterne da 10 a 12, il costo dei servizi produttivi da 10 a 12. Il costo complessivo per produrre la stessa quantità 100 di beni Y sarà adesso pari a 108. Immaginando che l’imprenditore voglia ricavare dalla vendita lo stesso rendimento del 10%, avremo che il valore del fatturato sarà pari a 118,8 e il prezzo unitario di vendita sarà salito a 1,188. L’incremento di prezzo unitario risulterà quindi di 0,088, ovvero l’8% in più rispetto al prezzo iniziale di 1,1. Ciò significa che anche in presenza di ipotesi forti l’effetto della svalutazione monetaria della lira del 20% non si è tradotto in un aumento del 20% dei prezzi come postulano gli automi scriteriati, provocando appunto un’inflazione del 20% (almeno su quello specifico bene prodotto), ma già in condizioni tanto estreme ed assurde la correlazione si è praticamente più che dimezzata.

Capite bene che se invece ragioniamo su ipotesi più realistiche, l’aumento previsto dei prezzi interni dei beni e servizi prodotti in Italia, causato da una svalutazione del 20%, sarà molto inferiore all’8%. Inoltre l’imprenditore potrebbe rispondere all’aumento dei costi delle materie prime, lavorazioni esterne e servizi produttivi acquistati all’estero, rimodulando la stessa struttura dei costi dell’azienda (per esempio potrebbe decidere di acquistare parte delle materie prime e dei servizi da aziende italiane, subendo un aumento dei costi molto inferiore rispetto al 20%, come dimostrato prima) oppure diminuendo il rendimento atteso del suo investimento dal 10% all’8% o al 7%. In aggiunta a queste modifiche interne all’azienda, l’uscita dall’Italia dalla zona euro potrebbe comportare dei cambiamenti istituzionali importanti, come il recupero della sovranità monetaria e la possibilità per lo Stato Italiano di diminuire discrezionalmente il livello insostenibile di tassazione che grava sulle piccole e medie imprese italiane (che oggi arriva a sfiorare cifre impressionanti del 65% della tassazione complessiva in rapporto al reddito imponibile), consentendo all’imprenditore di mantenere invariato il ritorno economico del suo investimento.

Ma c’è anche un altro fattore da considerare: la svalutazione della lira dovrebbe ragionevolmente comportare unaumento delle vendite e delle esportazioni grazie al recupero della competitività di prezzo delle aziende italiane rispetto a quelle estere e ad un miglioramento della domanda interna. Immaginando un aumento delle vendite del 10%, avremo che l’azienda X adesso produrrà 110 prodotti Y al costo complessivo di 113,8 (la componente di costi fissi di struttura non cambia ed è pari a 50, mentre aumenta la componente dei costi variabili fino a 63,8) e con il rendimento previsto del 10%, avremo che il valore del fatturato sarà di 125,18 e un prezzo unitario fissato dall’imprenditore di 1,138 (stiamo volutamente semplificando e ipotizzando che le condizioni di mercato consentano all’imprenditore di fissare liberamente il prezzo e il rendimento desiderato, ma sappiamo bene che non sempre è così e bisogna tenere conto del comportamento delle aziende concorrenti). Ovvero in questo caso l’incremento marginale di prezzo rispetto all’iniziale 1,1 sarà di 0,038 e avrà un impatto ancora minore pari al 3,45%, perché entrano in gioco i meccanismi di efficienza delle cosiddette economie di scala(più produco, meno incidenza avranno i costi fissi di struttura sui costi unitari del prodotto).

Questa descrizione serve quindi a smontare definitivamente il collegamento diretto fra svalutazione e inflazione, perché è evidente che chi la suggerisce non abbia mai lavorato in un’azienda o analizzato seriamente la struttura dei costi di produzione riportata sul conto economico di un normale bilancio d’esercizio: i soliti automi lobotomizzati insomma, che cercano di spaventare la gente con le paure e le superstizioni di medievale memoria. Se l’ignoranza non è spesso una colpa, la malafede è invece sempre un’aggravante e la conoscenza, o quantomeno la ricerca di conoscenza, chiarezza, consapevolezza, rimane ancora oggi l’unica via da seguire per liberarsi dalle catene dell’oscurantismo imperante. L’inflazione, fuori da essere un mostro diabolico da esorcizzare con strani rituali, è un semplice fenomeno economico che risiede molto di più tra le maglie della cosiddetta economia reale, nei processi microeconomici interni alle aziende, dalle dinamiche di domanda e offerta di un certo bene fino ai contratti del mercato del lavoro, rispetto alle grandi manovre macroeconomiche e monetarie messe a punto per esempio da una Banca Centrale, che come abbiamo detto più volte, stante l’attuale organizzazione del sistema bancario e finanziario, può incidere solo in modo indiretto e molto limitato sui livelli di inflazione desiderati. Prima arriviamo a metabolizzare meglio questi concetti e prima usciremo fuori sani e salvi dai pantani.

Avendo chiaro dunque che fra svalutazione e inflazione non esiste affatto una correlazione diretta ma al massimo indiretta, provvisoria e marginale, vediamo adesso di analizzare punto per punto altri due fattori su cui insiste molto la propaganda di regime con il solito scopo di disorientare, confondere, terrorizzare l’opinione pubblica, in relazione all’uscita dall’euro e al provvidenziale recupero della nostra moneta sovrana lira:

1) I tassi di interesse schizzerebbero alle stelle
2) Chi ha un mutuo in euro, avrebbe un aumento della rata del 30%-50% in più

1) Tassi di interesse

Partiamo subito da un concetto. Il tasso di interesse di riferimento fissato periodicamente dalla Banca Centrale serve a regolare principalmente gli scambi interbancari fra gli istituti finanziari che hanno accesso a quel tipo di mercato, ma è spesso poco indicativo per indirizzare gli andamenti dei tassi nei circuiti commerciali e ciò che sta accadendo oggi nell’eurozona è un esempio molto calzante per capire quanto detto: il tasso principale di riferimento della BCE è al minimo da qualche mese (0,75%), mentre i tassi di interesse applicati dalle banche ai prestiti è ancora molto alto nei paesi della periferia, dove si paga innanzitutto l’elevato spreaddovuto ai titoli di stato. In questo caso quindi sono essenzialmente le aspettative di sostenibilità dei singoli paesi ad influenzare i tassi di interesse e non certo le decisioni ribassiste della BCE, che offrono sostegno soltanto al settore bancario disastrato e poco altro. Questa politica dei tassi che potremmo definire espansiva della BCE, in linea con le strategie attuate dalle altre banche centrali mondiali, non ha avuto alcun effetto sull’inflazione, perché appunto non si è tradotta in maggiori investimenti, produzione, occupazione, domanda, rimanendo confinata al solo settore bancario.

I tassi di interesse andrebbero poi opportunamente divisi per tipologia e durata: i mercati finanziari dei capitali applicano diversi tassi per le varie forme di investimento e ovviamente in un clima di incertezza diffusa mantengono tassi più bassi per le operazioni di breve o brevissimo termine, mentre richiedono rendimenti più alti per gli investimenti di medio-lungo periodo, come possono essere i nostri famigerati titoli di debito pubblico BTP a dieci anni che vengono utilizzati per misurare la febbre del sistema Italia. In generale comunque le Banche Centrali mondiali stanno adottando una politica monetaria di bassi tassi di interesse non tanto per rilanciare i consumi e gli investimenti, ma per consentire al settore bancario di ridurre la loro sproporzionata leva finanziaria e il saggio di indebitamento. Scelta che purtroppo si sta rivelando piuttosto infelice, perché le banche non ci hanno pensato nemmeno un attimo ad interrompere il loro carosello impazzito di investimenti finanziari fuori controllo: prendono soldi in prestito a basso tasso di interesse dalla Banca Centrale e vanno a cercare in giro per il mondo i rendimenti più alti e spesso molto rischiosi.

In uno scenario di uscita dell’Italia dall’euro e ritorno alla lira, con tutto ciò che comporta in termini di ripristino di una corretta e normale politica monetaria da parte della “nostra” Banca Centrale (qualora si riuscisse a nazionalizzare finalmente la Banca d’Italia, come è giusto che sia), non si capisce bene il motivo per cui l’autorità monetaria nazionale dovrebbe subito procedere ad un aumento dei tassi di interesse: la nostra bilancia commerciale è pressoché in pareggio e con la svalutazione della nuova lira dovrebbe andare rapidamente in surplus, mentre come già sappiamo il perdurante deficit delle nostre partite correnti è dovuto soprattutto agli interessi sul debito estero da corrispondere agli investitori stranieri e ai redditi da lavoro e profitti da investimento diretto che fuggono all’estero. Il surplus commerciale servirà quindi a pagare interessi, redditi e profitti agli operatori stranieri e a tamponare inizialmente l’emorragia in corso delle partite correnti, consentendo al settore bancario con opportuni controlli sui movimenti dei capitali in uscita dal paese di ricreare le necessarie riserve di valuta estera. Quando la lira comincerà di nuovo ad apprezzarsi come è logico che sia in un regime flessibile di cambio e in una prospettiva di progressivo consolidamento delle partite correnti, leriserve di valuta estera serviranno ad arginare eventuali nuovi deficit nei bilanci con l’estero. Consideriamo anche che il debito estero consolidato è alto (30% circa del PIL) ma non ha raggiunto i livelli di allarme tipici dei casi di default da debito estero e quindi può essere sostenibile soprattutto se la Banca Centrale riesce a mantenere più a lungo possibile nel tempo un regime di bassi tassi di interesse per consentire a tutti gli agenti economici italiani, sia pubblici che privati, di rinnovare i loro debiti a condizioni più favorevoli.

Se analizziamo in particolare la situazione del debito pubblico detenuto da operatori stranieri, possiamo notare che nell’ultimo anno la quota si è ridotta dal 45% al 30% circa attuale, che potrebbe ancora ridursi qualora parte di questo debito denominato in euro venisse convertito in lire (bisognerebbe verificare in questo caso quale sia la giurisdizione sotto la quale è stato stipulato il contratto) e la Banca Centrale riprendesse a sostenere direttamente i deficit pubblici come avveniva prima dello sciagurato divorzio fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro del 1981, agendo da acquirente residuale dei titoli invenduti e calmierando adeguatamente i rendimenti. Sulla parte di debito estero denominato in altra valuta straniera diversa dall’euro (tipicamente dollari) e sottoscritto secondo una giurisdizione estera o il diritto internazionale si potrebbe fare ben poco, oltre a richiedere un’opportuna ristrutturazione e dilazione di pagamento sia degli interessi che della quota capitale. In tal caso sarebbe compito del nuovo governo di transizione far valere le proprie ragioni sovrane presso i consessi internazionali e in particolar modo nei confronti del FMI, che si occupa di gestire queste relazioni finanziarie intrecciate tra paesi diversi.

Insomma, stante l’abbondanza attuale di capitali internazionali a buon mercato e la situazione ancora gestibile del bilancio estero dell’Italia, non esiste alcun motivo fondato che giustifica il timore di innalzamento dei tassi di interesse causato dall’uscita dell’Italia dalla zona euro e dall’esigenza di attirare nuovi capitali dall’estero. Ma qui ritorniamo sempre al punto di partenza, nel campo delle suggestioni e delle superstizioni mistiche, perché con il medesimo riflesso condizionato con cui gli automi associano la parola inflazione a svalutazione, avviene a livello subliminale e inconscio l’associazione di idee tra svalutazione, inflazione e tassi di interessi: se andrete più a fondo indagando negli oscuri meandri della loro coscienza scoprirete che non c’è alcun ragionamento logico a sostenere questo legame sinottico tra parole dal significato molto diverso (benché queste grandezze siano tutte connesse ad una certa moneta hanno origini e cause difficilmente assimilabili) e se scaverete ancora più giù troverete che la maggior parte degli automi non sa neppure lontanamente il significato di queste parole. Immaginate dunque cosa accade quando tentano di associarle insieme: un guazzabuglio inestricabile in cui chi alza di più la voce imprime negli altri la litania da seguire e da ripetere meccanicamente

E’ stato più volte rimarcato da economisti come Alberto Bagnai e Claudio Borghi come il miglior modo per tagliare la testa al toro sia riferirsi direttamente ai fatti e ai dati che abbiamo a disposizione e in particolare agli eventi precedenti e successivi all’uscita della lira dallo SME (Sistema Monetario Europeo), avvenuta per l’esattezza il 18 settembre del 1992 e alla conseguente svalutazione nominale della lira del 25% in un anno. Abbiamo un esempio vivido, recente e affidabile su quali siano i reali effetti della svalutazione e perché non sfruttarlo? Come si può vedere nel grafico riportato sotto, riferito ai tassi di interesse a tre mesi nel mercato interbancario, questi non solo non aumentarono (schizzarono alle stelle, secondo le immaginifiche descrizioni degli automi) per chissà quale assurda alchimia teologica, ma cominciarono a diminuire proprio a partire dalla data di inizio della libera fluttuazione e della svalutazione della lira. E il motivo di un simile fenomeno è abbastanza semplice: la Banca d’Italia non era più costretta a tenere alti i tassi di interesse fino al 18%, poco prima della svalutazione, per attirare capitali dall’estero e mantenere la parità di cambio con l’ECU (ma in particolare con il marco tedesco, che era la moneta più forte del paniere) prevista dallo SME. Una volta uscita dallo SME, laBanca d’Italia poteva tranquillamente allentare i tassi di interesse e lasciare libera di fluttuare la lira nel mercato dei cambi, cosa che come sappiamo consentì un rapido recupero di competitività di prezzo delle nostre esportazioni e il passaggio della nostra bilancia commerciale dal deficit al surplus, che continuò a crescere fino al 1996, anno in cui l’Italia rientrò nello SME e la nostra ritrovata competitività commerciale andò a farsi benedire.

Se restringiamo il periodo di osservazione e entriamo ancora di più nel dettaglio (grafico sotto), ci accorgiamo che la caduta dei tassi di interesse successiva alla svalutazione ha coinvolto non solo il mercato monetario(Money Market Rate), ma anche il regime degli interessi collegato all’attività creditizia delle banche (Lending Rate) e i rendimenti dei titoli di stato sia a breve che a lungo termine (Treasury Bill Rate e Government Bond Yield). Quindi non si è trattato di un fenomeno puramente monetario, ma anche di un processo reale, effettivo che per intenderci ha inciso anche sulle rate dei nostri mutui, prestiti, investimenti in titoli. Quando poi l’Italia si è agganciata definitivamente all’euro nel 1999, delegando la politica monetaria e in particolare la decisione sul tasso di riferimento alla BCE, il mercato interno aveva già raggiunto per conto suo un livello di tassi di interesse basso, intorno al 4%, anche perché la situazione internazionale influenzata principalmente dalla politica espansiva della Federal Reserve americana (il famoso Greenspan put, che anticipò e favorì la crisi dei mutuisubprime del 2007) garantiva l’ottimismo, buone prospettive di crescita economica e un’abbondanza di capitali a buon mercato. L’altra storiella secondo cui l’ingresso nell’euro ci ha assicurato un dividendo annuale di circa 100 miliardi all’anno di risparmio in interessi è quindi una bufala colossale, perché anche se fosse rimasta con la sua moneta sovrana lira l’Italia non avrebbe avuto alcun problema a finanziarsi con i bassi tassi di interesse che vigevano a livello internazionale.

Con l’uscita dall’euro le cose non dovrebbero andare tanto diversamente da allora, con una svalutazione iniziale abbastanza rapida, seguita da una graduale rivalutazione della nostra valuta dovuta principalmente al rilancio delle nostre esportazioni, alle ridotte importazioni e al miglioramento complessivo della bilancia commerciale con l’estero. L’inflazione potrebbe salire di qualche punto percentuale, ma non sfiorerà mai i livelli a due cifre paventati dai soliti noti della propaganda di regime, per i motivi che ci siamo detti sopra. I tassi di interesse potranno essere invece gestiti tranquillamente da Banca d’Italia, adeguandosi al basso regime di tassi di interesse, che al momento viene adottato un po’ dovunque da tutte le Banche Centrali del mondo e consente un abbondante afflusso di denaro, quanto meno nel settore bancario. E tutto questo discorso può essere sintetizzato molto bene dal grafico sotto, che mette insieme l’andamento delle tre grandezze in questione nei mesi immediatamente precedenti e successivi alla svalutazione del 1992.

Se i modelli economici come abbiamo detto sono delle mappe, cosa c’è di meglio di consultare una mappa che ripercorre esattamente gli stessi passi che dobbiamo fare adesso? Invece di sparare numeri a caso e terrorizzare la gente con suggestioni surreali, perché non si invita la gente a verificare con dati e numeri alla mano, quali sono in Italia gli effetti reali della svalutazione? Non sarebbe questo un onesto servizio di informazione e non uno dei soliti tentativi di depistaggio teosofico? Certo la situazione internazionale non è più rosea e ottimista come dieci anni fa, ma è facile dimostrare come in Italia la riduzione di una certa quota di domanda estera potrebbe essere compensata con il recupero della domanda interna che ormai precipita sempre di più verso il basso. Fermo restando tutti i fenomeni che abbiamo descritto fin qui. A questo punto c’è solo da ricordare che chi ha ancora i mezzi e la voglia di ragionare ha tutti gli elementi per farlo, mentre chi è soltanto obnubilato daimessaggi contorti e fideistici della propaganda di regime o si lascia facilmente sospingere dallo spirito cameratesco di appartenenza (vedi per esempio i piddini e il loro strampalato sogno astutamente insufflato degli Stati Uniti d’Europa), arriverà lo stesso a queste conclusioni, ma quando ormai sarà troppo tardi per rimediare.

2) Mutui

Il discorso sul maggiore costo dei mutui in euro, conseguente ad un ritorno alla lira e tirato in ballo ripetutamente dagli automi come controprova del disastro catastrofico di un’eventuale uscita dalla zona euro, risulta in effetti l’argomento più facile da smontare e in un certo senso quello più esilarante. Secondo i ridicoli e caracollanti ragionamenti (?) degli automi, chi ha contratto un mutuo in euro vedrebbe aumentare il costo del debito e della corrispondente rata del 20% circa, in seguito alla svalutazione dello stesso ordine di grandezza della lira. Ma se questo nuovo debito venisse denominato in nuove lire, con un rapporto di cambio di 1:1 con l’euro,di quale perdita stiamo parlando? I mutuatari pagheranno il loro debito con la nuova moneta, senza accorgersi minimamente del passaggio (la svalutazione nei confronti delle monete estere non entra affatto in gioco in questo caso, perché stiamo parlando di un processo tutto interno alla giurisdizione nazionale) e anzi, qualche punto di inflazione in più, li aiuterebbe a ripagare con meno affanni il debito ancorato invece al vecchio valore della moneta (l’inflazione aumenta sia i prezzi dei beni che dei salari, mentre il valore nominale del debito non viene modificato, diventando più gestibile nel corso del tempo).

La questione quindi non riguarda tanto l’aumento del costo del debito per i mutuatari, che non avverrebbe mai per le ragioni spigate sopra, ma capire quale parte di debito pubblico e privato italiano è stato contratto in conformità alla normativa nazionale e quale invece è da riferirsi ad una giurisdizione estera o internazionale, che imporrebbe ai mutuatari di continuare a pagare le rate, le cedole e gli interessi in euro (qualora l’euro continuasse a sopravvivere come moneta di conto dopo l’eventuale uscita dell’Italia: cosa assai improbabile) o in altra valuta estera. Bisognerebbe capire quindi emissione per emissione, come sono stati sottoscritti i contratti e se per i mutui ipotecari per l’acquisto di immobili sul territorio nazionale il rischio sarebbe abbastanza limitato, altra cosa sarebbe verificare i debiti/crediti commerciali con l’estero delle aziende italiane, comprese le emissioni obbligazionarie, nei confronti di residenti esteri.

In questo caso, dovrebbe essere lo Stato Italiano, nella titolarità di Banca d’Italia, Consob, Ministero dell’Economia e degli Affari Esteri, ad effettuare questa attività di verifica, a sostenere con qualche forma di facilitazione i debitori nazionali e a stipulare accordi internazionali con i paesi creditori per alleggerire le condizioni di rimborso. Per intenderci, l’unico problema per il comune cittadino che ha stipulato un mutuo per l’acquisto della casa potrebbe verificarsi nel caso in cui il mutuo sia stato stipulato con una banca straniera o con una succursale di una banca straniera in territorio nazionale (Deutsche Bank, Allianz, BNP Paribas, Barclays etc) e siccome l’uscita dall’euro comporta automaticamente e preventivamente l’uscita dall’Unione Europea, compito dello Stato sarebbe anche quello di rivedere tutta le normativa comunitaria riguardante le concessioni di apertura di succursali e filiali transfrontaliere e l’enorme libertà di domicilio di cui ha potuto agevolarsi in questi ultimi anni in particolar modo il settore bancario. Insomma con qualche decreto legge d’urgenza e accordo diplomatico con i paesi membri dell’Unione Europea, il problema dovrebbe essere presto risolto: tutte le operazioni finanziarie effettuate in territorio nazionale da banche o filiali estere nei confronti dei residenti potrebbero essere così facilmente ridenominate in nuove lire, tranne nei casi di evidenti controversie o clausole esplicite di non convertibilità presenti nei contratti.

Molto più bizzarra e impraticabile mi sembra invece l’ipotesi di continuare a mantenere i depositi e i contratti di debito/credito in euro, consentendo allo Stato di immettere gradualmente le nuove lire nel circuito interno tramite la spesa pubblica. In questo caso, oltre alla complessità ulteriore di mantenere un doppio sistema dei pagamenti, i mutuatari avrebbero sicuramente una perdita effettiva determinata dal fatto di dover pagare un debito in euro cominciando invece a ricevere stipendi, compensi, incassi, profitti in lire. Inoltre la circostanza di avere dei debiti contratti in moneta estera renderebbe molto inique le condizioni di rimborso fra chi magari avrebbe ancora la possibilità di ricevere pagamenti in euro (un’azienda italiana esportatrice per esempio) e chi invece non ha alcuna scelta sulla moneta in cui viene pagato (un dipendente pubblico o un lavoratore stipendiato in genere), facendo ricadere su questi ultimi il costo maggiore della svalutazione. Senza considerare il fatto che la provvidenziale e quanto mai auspicabile uscita dell’Italia dalla zona euro comporterebbe una probabilefrantumazione a catena dell’intera unione monetaria, facendo finalmente scomparire dai mercati la peggiore e più oligarchica moneta mai introdotta nella storia dell’uomo (almeno dall’avvento dei moderni stati democratici). Quindi ipotizzare un ritorno alla lira e contemporaneamente una permanenza dell’euro risulta uno scenario assai difficile da prevedere.

In supporto della maggiore convenienza a propendere decisamente per la prima idea di conversione totale dei sistemi di pagamento in nuove lire potrebbe aiutarci la storia recente, che insegna come tutti gli stati coinvolti in un default o in una violenta crisi di debito estero o domestico (ricordando che per quanto riguarda l’euro è sempre difficile distinguere fra queste due categorie, essendo l’euro per l’Italia una moneta straniera a tutti gli effetti, come il dollaro, la sterlina o lo yen giapponese) hanno sempre preferito convertire forzosamente in valuta nazionale la quota giuridicamente gestibile di debiti esteri o domestici denominati in valuta straniera, anche attraverso la decisione di sganciamento dalla parità rigida di cambio e adozione di un regime di tassi flessibili. Un caso esemplare è quello del quasi default del Messico del 1994, quando il governo decise di rimborsare i famigerati tesobonos, costituiti prevalentemente da titoli di debito pubblico a breve termine rimborsabili in pesos agganciati al dollaro americano (quindi indirettamente denominati in dollari), sempre in pesos ma sganciandoli dal cambio rigido con il dollaro. Stessa cosa accadde poco dopo in Bolivia, Perù eArgentina. A dimostrazione del fatto che quando uno Stato riacquisisce la sovranità sulle decisioni di politica monetaria è sempre un passo molto imprudente ed azzardato quello di mantenere i propri debiti esteri o domestici denominati in una valuta straniera, almeno nei casi in cui la giurisdizione prevalente di riferimento sia quella nazionale.

Certo se questa delicata fase di transizione e di passaggio valutario venisse gestita da conclamati governanti mercenari come i vari Monti, Prodi, D’Alema, Bersani, Casini non avremmo dubbi su quali interessi sarebbero indotti a privilegiare a danno del benessere dei propri concittadini e della stabilità del proprio paese. Ma qui il discorso dovrebbe ormai essere chiaro a tutti: la fine dell’euro comporterebbe automaticamente l’esilio o la citazione in giudizio per alto tradimento della Costituzione Italiana per la maggior parte dei criminali protagonisti dell’attuale classe dirigente italiana. Tolto il male (l’euro), gli italiani dovrebbero essere sufficientemente decisi e determinati ad eliminare anche i malfattori (gli eurocrati e gli europeisti di spicco in genere, non quelli di traino, perché se no si tratterebbe di una vera e propria deportazione di massa), per impedire preventivamente che approfittando della prevedibile situazione di disordine e confusione istituzionale possano rendersi colpevoli di altri crimini e misfatti.

Dopo avere così smontato per bene le prime 4 tesi infondate degli automi, adesso rimane il classico ragionamento sulle materie prime e il costo della benzina alla pompa, che per la complessità dell’argomento è meglio trattare a parte in un articolo dedicato. Sicuramente possiamo però anticipare che anche qui tutte le stravaganti visioni apocalittiche prospettate dagli automi sono prive di fondamento scientifico, economico, geopolitico e frutto di ataviche suggestioni mistiche abilmente indotte dalla propaganda. Ripeto, cominciamo a preparare la carriola che alcuni beceri politicanti del regime europeista indicano come contenitore delle banconote in lire da utilizzare per l’acquisto della benzina, come strumento utile per accompagnare queste mummie ipocrite o imbesuite al confine. Forse in Bosnia, Svizzera, Croazia, Svezia, Giappone, Corea si accorgeranno che il mondo va avanti lo stesso anche senza l’euro e senza il tanto agognato petrolio, perché questi paesi hanno saputo meglio valorizzare l’operosità e la creatività della propria popolazione rispetto alle invenzioni della finanza e alle ricchezze del sottosuolo. Perché le persone mediocri che non hanno né operosità né creatività sono spesso portate istintivamente a pensare che anche gli altri ne siano privi, affidandosi ai ben noti vincoli esterni: prima i generosi finanziamenti provenienti dall’URSS, poi gli Stati Uniti, la moneta unica, il sistema bancario e finanziario, l’Unione Europea, l’euro, la Germania e immancabile anche il petrolio. Concittadini ingrati ed esterofili di cui faremmo tranquillamente a meno, sempre concentrati a farci sentire in colpa per ciò che ci manca e mai interessati a valorizzare quello che abbiamo in abbondanza.

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