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martedì 10 settembre 2013

DIFFIDATE DI CHI DICE CHE CI SONO TANTI POSTI DI LAVORO

In un mercato dove la quota di forza lavoro “potenziale” - ovvero i disoccupati che non cercano lavoro, ma sono disponibili a lavorare - è la più alta d’Europa (sono 3 milioni, rappresentano un terzo del totale e sono tre volte la media europea), è improbabile che manchino le professionalità o le qualifiche necessarie al mercato.


La notizia che in Italia mancano la bellezza di 8 mila pizzaioli, è solo l’ultimo degli annunci che emergono dalle indagini della Cgia di Mestre o Excelsior, ma queste previsioni spesso presentano dei nodi critici che è bene tener presente.

Il sistema Excelsior rappresenta un riferimento per chi è interessato a comprendere l’evoluzione del mercato del lavoro in Italia; uno dei suoi scopi principali è quello di migliorare l’attività di orientamento professionale dei servizi per l’impiego. L’indagine, finanziata dal Fondo Sociale Europeo, è svolta in ogni provincia italiana dalla rete delle Camere di Commercio con interviste dirette o telefoniche, coinvolgendo un campione di 100.000 imprese in tutti i settori economici. Dal punto di vista della ricerca sul mercato del lavoro, rappresenta una rara occasione di studiare il punto di vista delle imprese, le loro aspettative e i loro comportamenti in termini di collocamenti realizzati e futuri. Tuttavia, queste previsioni (e il risalto mediatico che ricevono) potrebbero far nascere nei confronti dei disoccupati che leggono questi dati delle “aspettative” che, per effetto di alcuni limiti, rischiano di non realizzarsi.

Innanzitutto, le risposte date dai datori potrebbero essere affette da “desiderabilità sociale”. In altri termini, le risposte potrebbero non corrispondere poi al reale impegno da parte del datore nell’instaurare un nuovo rapporto di lavoro.

Inoltre, in quanto indagine “aggregata” che deve tutelare la privacy, queste informazioni nella fase di progettazione delle politiche del lavoro non forniscono un contributo sostanziale perché troppo approssimative. In assenza dei nomi delle imprese, difficilmente i centri per l’impiego o le agenzie private potranno sfruttare queste informazioni, realizzando un network per migliorale le attività di mediazione.

Infine, effettuare una formazione “mirata” sulla base di queste informazioni rischia di tradursi in un pericoloso “sperpero” di denaro pubblico. In assenza di precisi accordi con le singole imprese, chi assicurerà i responsabili delle politiche attive che l’investimento di diversi milioni di euro non si tramuti nell’ennesimo parcheggio in attività inutili e in un affare per gli enti formativi?

In altre parole, dire che in Italia ci sono 8 mila posti disponibili per pizzaioli, senza indicare i nomi delle pizzerie è totalmente inutile da un punto di vista pratico; è come se i servizi segreti avvertissero il ministro dell’interno di un probabile atto di terrorismo in Europa senza fornire informazioni precise; a cosa serve ?

A fronte di questo, è necessario chiarire che i posti vacanti in Italia potrebbero aggirarsi intorno ai 50.000 (stima generosissima), un dato difficile da calcolare per la presenza prevalente nel territorio di imprese sotto i 10 dipendenti. Supponendo che questo sia effettivamente vero, rappresenterebbe comunque una goccia nel mare rispetto ai circa 6 milioni di persone in età attiva senza lavoro. 

A ciò si aggiunge un altro problema direttamente collegato alla natura dell’attuale mercato del lavoro. Nel 2012, stando alle indagine sulle Comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro (un censimento dei rapporti di lavoro creati o conclusi nello stesso anno) si contano più di 10 milioni di posti di lavoro creati. I settori più rappresentativi sono, oltre alle attività stagionali, camerieri, manovali nel settore edile, cuochi, facchini, autisti di furgoni e attività assimilabili (Tabella 1).


La quota di assunzioni è più o meno in linea con quella degli scorsi anni, ma prima di sbilanciarci in un giudizio positivo, vanno sottolineati due aspetti fondamentali: il primo è che si tratta per l’80% dei casi di contratti “atipici” (mancano i dati sulle “false” partite Iva) realizzati spesso nei confronti dello stesso soggetto; il secondo, in parte proprio per effetto della presenza di un mercato così “atipico”, è che contemporaneamente terminano più di 9 milioni di rapporti di lavoro. 


Alla luce di queste considerazioni, sorgono una serie di dubbi o ipotesi che sarebbe bene indagare: non è che una buona parte dei lavori creati ogni anno (esclusi ovviamente quelli stagionali) sono gli stessi degli anni precedenti? Se questo è vero, siamo in presenza di una pesante “distorsione” prodotta dalla flessibilità del mercato del lavoro, ovvero si sta ampliando un “circuito occupazionale precario” da cui una quantità sempre maggiore di persone avrà sempre più difficoltà ad uscire.

D’altronde, un sistema che propone un esercito di precari si traduce in bassi consumi, zero investimenti di medio periodo e zero sviluppo. A sua volta, questa situazione si traduce per la domanda di lavoro in poche commesse dal mercato interno e di conseguenza l’impossibilità di stipulare con i propri lavoratori un contratto di lungo periodo come quello a tempo indeterminato.

Un circolo vizioso pericolosissimo da qualsiasi prospettiva si guardi; ma come siamo arrivati a questo “circolo vizioso” ? Purtroppo una grande responsabilità è da attribuire alle parti sociali: siamo sicuri che ad oggi i principali sindacati italiani siano effettivamente i soggetti più appropriati per rappresentare i giovani e i loro diritti? L’età media dei loro associati è sempre più elevata, il peso dei pensionati all’interno dei sindacato sempre più alto, mentre è quasi inesistente quello dei lavoratori precari. 

In altri termini, la Cassa integrazione in deroga (nelle ristrutturazioni industriali), così come il Protocollo del welfare, la Riforma Dini, o la Legge Biagi (mercato flessibile solo in entrata), sono la dimostrazione che i sindacati hanno favorito e favoriscono ancora oggi solo una fetta (ormai sempre più piccola) del mercato del lavoro. Il paradosso è che oggi in piazza nelle manifestazioni per il lavoro ci vanno coloro che hanno partecipato al percorso che ha inevitabilmente portato a questa situazione.

di Francesco Giubileo
fonte: Linkiesta

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