«C’è un grave problema di legalità al ministero delle Finanze».
Ripeta, per favore.
«C’è un grave problema di legalità al ministero delle Finanze. Sardegna compresa».
Si rende conto?
«Perfettamente».
Maria Rosaria Randaccio sa bene cosa dice, è capace di dosare come un farmacista il peso delle parole. È stata Intendente di Finanza a Cagliari fino a quando le Intendenze sono state soppresse. Poi ha diretto la Commissione Tributaria per passare più tardi al Tesoro e all’assessorato regionale al Turismo prima di andare in pensione, nel 2010. Burocrate d’altissimo profilo e competenza oceanica, parla citando a cascata leggi e circolari, decreti legislativi e codici. Ha sessantasette anni, due figli, quattro nipoti e nessuna voglia di scherzare. Tant’è che si prepara a una guerra di carta bollata che coinvolgerà la Corte dei Conti e la Procura della repubblica.
Sulla porta del suo ufficio, nel quartiere di Stampace alto a Cagliari, c’è una targa: Arad, sta per Associazione regionale ascolto del disagio. Nel senso che dedica il suo tempo, a titolo assolutamente gratuito, al popolo dei triturati, agli infelici che hanno duelli al sole con Equitalia e guai fiscali come un lebbroso piaghe.
«Quando dicono che il debito pubblico ricadrà sulle spalle delle generazioni future si dimenticano di precisare che si tratta di un furto, il secondo per la precisione, messo a segno dallo Stato nei confronti dei suoi sudditi». Non vuole fare colpo con frasi ad effetto e nemmeno vestire i panni dell’eroina rivoluzionaria. Di sicuro sa di che sta parlando e, con l’aiuto di altri volontari (avvocati, commercialisti, fiscalisti), punta a dare battaglia. Due gli obiettivi di un movimento senza targhe e padrini: Equitalia e le zone franche.
In gioventù ha avuto simpatia per i socialisti «ma anche loro non mi vedevano di buon occhio, consideravano fastidioso il fatto che fossi donna e, per di più, preparata». Intollerabile. Così, ha proseguito in solitudine la carriera di burocrate scoprendo, passo passo, molte cose che non quadravano. Per esempio, che lo Stato ha svenduto il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali e non solo. «Ma agli italiani non l’ha comunicato». Detto terra terra, la sede cagliaritana dell’Inps non appartiene più all’Inps, gli uffici della Corte dei Conti e quello della vecchia Intendenza di Finanza sono stati ceduti a privati. Quando? Impossibile sapere con precisione la data. Per quanto? Non ricevuto, segreto di Stato. A chi? Circolano voci «ma le voci non sono fatti e noi, invece, ci atteniamo esclusivamente ai fatti».
Fosse un cane, la Randaccio sarebbe certamente un rottweiler. Ma, purtroppo per qualcuno, è un «cittadino italiano consapevole e non più disposto a star zitto».
Una volta l’Intendenza di Finanza aveva il compito di vigilare sull’operato degli uffici finanziari pubblici. Controllava la gestione del gioco (Totocalcio, Lotto, Enalotto, Totip), monitorava entrate e conservazione del demanio pubblico. A partire dal 1992 la musica è cambiata: via le Intendenze e via, soprattutto, il patrimonio dello Stato. «A cominciare da quello regalato da Giuseppe Garibaldi».
Garibaldi, esagerata.
«Prima dell’Unità, il nostro Paese era diviso in stati e staterelli. Una volta conquistati, Garibaldi ha ceduto le loro ricchezze (edifici, pinacoteche, collezioni d’arte) alla monarchia che, sconfitta nel referendum del 1946, ha girato tutto alla repubblica».
Come e quando è nata l’idea di reagire?
«Quando dirigevo la Commissione tributaria mi trovavo spesso di fronte a gente umile, zavorrata da cartelle di Equitalia, gente costretta a pagare il bollo-auto anche due, tre volte».
Come mai?
«Si giocava sul fatto che ci si dimentica di conservare le ricevute. E siccome al ministero delle Finanze interessava far cassa, non si andava tanto per il sottile».
Si poteva comunque fare ricorso.
«Per presentare ricorso servivano altri soldi ancora. Un fiscalista non ti chiede meno di cinquecento euro per muoversi».
Perché ce l’ha con Equitalia?
«Perché è una società per azioni e dunque persegue fini di lucro. Basti dire che i suoi impiegati non sono stati assunti attraverso concorsi pubblici, come succede di norma per gli statali, ma in forma più o meno diretta».
L’Intendenza di Finanza era invece un ente di beneficenza.
«No che non lo era. Ma non abbiamo mai messo sotto sequestro un solo appartamento, non abbiamo acquisito aziende da far andare poi all’asta. Sospetti inclusi».
Che sospetti?
«Le aste giudiziarie sono oggetto di interesse da parte della magistratura. Si pensa che molte siano taroccate, che i beni messi all’incanto vengano rilevati da amici degli amici e organizzazioni non esattamente limpide».
Si rende conto della gravità delle cose che dice?
«Da anni ci sbatto il muso contro, non a caso seguo tutti i movimenti anti-Equitalia e anti-usura. Voglio almeno che gli italiani sappiano».
Che debbono sapere?
«Che nel 1993, secondo l’allora ministro Barucci, il debito pubblico era di seimila miliardi di lire. Per ripianarlo, secondo il ministro, era sufficiente vendere il 20-30 per cento di quattro grosse imprese pubbliche».
E allora?
«Hanno svenduto il demanio pubblico ma il danaro incassato – al contrario di quanto prevede la legge – non è stato destinato all’abbattimento del debito pubblico. Capito cosa voglio dire?»
No.
«Il debito pubblico oggi ammonta a fantastilioni di euro. Significa che il popolo italiano è stato derubato. Monti sta cercando di vendere quel poco che è rimasto ma sono soltanto briciole».
Come uscirne?
«Chiederemo il risarcimento danni ai ministri del Tesoro e delle Finanze che si sono succeduti da allora. A cominciare da Mario Draghi che, da sottosegretario al Tesoro, non ha fatto certo meglio dei suoi colleghi. Ci rivolgeremo alla Corte dei Conti e promuoveremo una class action».
Tempo perso chiederle a chi dobbiamo il debito pubblico.
«Lo ripiani chi l’ha creato: i ministeri del Tesoro e delle Finanze. Chiedere di farlo ai cittadini significa pretendere un risarcimento dai derubati».
È sicura di questo?
«Sono le carte a parlare. Prima gli enti previdenziali, Inps in testa, pagavano le pensioni e la cassa integrazione dal danaro che incassavano. Oggi non possiedono più niente, nemmeno gli uffici che occupano. A questo siamo ridotti».
Avete calcolato l’entità del buco?
«Impossibile, dovremmo risalire ai conti di Garibaldi. E pensare che quando lavoravo all’Intendenza di Finanza c’era una camera blindata che conteneva l’elenco dei beni che lo Stato aveva passato alla Regione».
Casi clamorosi?
«Calamosca e Monte Urpinu a Cagliari. Credo siano due esempi eclatanti. Sono stati ceduti ma ufficialmente nessuno lo sa. Sconosciuto l’importo e il nome dei beneficiari».
Intervistata da Der Spiegel, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato qualche settimana fa: «Se i politici sardi non dormiranno, la zona franca in Sardegna potrà diventare a breve una realtà». Previste dallo Statuto sardo (articolo 12), le zone franche hanno preso corpo nel 1998 con un decreto legislativo di attuazione che individua nei porti di Cagliari, Olbia, Oristano, Portotorres, Portovesme, Arbatax ed in altri porti e aree industriali ad essi funzionalmente collegate o collegabili la possibilità di istituire una zona franca. Per farlo c’è tempo fino a giugno dell’anno prossimo, quando entrerà in vigore il nuovo Codice doganale aggiornato, che lascia vivere le vecchie zone franche ma vieta l’apertura di nuove. «I tempi stringono, non abbiamo un minuto da perdere», dice Maria Rosaria Randaccio. E per dare forza al suo discorso ha deciso, come prima mossa, di inviare una serie di diffide.
Indirizzate a chi?
«Al presidente della giunta regionale, al sindaco di Cagliari e all’Autorità portuale di Cagliari, l’unica finora nominata in Sardegna».
Il senso della diffida?
«Leggi alla mano, li invitiamo a istituire al più presto le zone franche».
Non è così semplice.
«Invece è proprio semplicissimo. Basta fare una delibera che ne traccia i confini. Il resto sono solo adempimenti burocratici e tecnici».
A chi serve una zona franca?
«A tutti i sardi. I Paesi che hanno vinto la seconda guerra mondiale ne avevano previsto l’istituzione nelle aree dove si registrava spopolamento legato a difficili situazioni economiche. Il nostro caso».
Quali sono i vantaggi?
«L’abbattimento dei dazi doganali, Iva, accise e altri benefici fiscali. Zero burocrazia. Ci sarà una ragione se Livigno, il più ricco Comune italiano, è zona franca. Pensate ad aree come il Sulcis, Ottana, Portotorres: le imprese avrebbero un interesse immediato e concreto a investire».
Svantaggi?
«Nessuno».
Sta dimenticando, insieme agli investitori, l’arrivo della criminalità.
«È un problema calcolato e previsto. La ricchezza prodotta dalla zona franca consentirebbe di creare uno scudo contro la presenza del crimine organizzato, che in Sardegna peraltro è già presente».
In che modo?
«Siamo una terra destinata a ripulire danaro sporco, a riconvertire somme che non sarebbero utilizzabili altrove, a investimenti massicci sul fronte immobiliare che, come tutti sanno, è una delle migliori lavanderie di danaro. Da tempo la Sardegna è sotto osservazione da parte della Commissione parlamentare antimafia».
L’Unione europea come vede la faccenda?
«Ritiene che le zone franche siano configurabili come aiuti di Stato. Perciò ha deciso di non farne nascere nuove a partire da giugno 2013».
Chi volete convincere?
«La classe politica sarda ha ignorato le zone franche per sessant’anni. Ne ha discusso, ci ha girato attorno senza mai arrivare a niente di concreto. Ora, però, i tempi sono enormemente diversi. La crisi non consente altri tentennamenti».
E voi sperate di centrare il bersaglio con le buone o con le cattive.
«Abbiamo la legge dalla nostra parte. Ma abbiamo soprattutto la ripresa dell’emigrazione, la fuga dei giovani, la disoccupazione che cresce, le vecchie cattedrali dell’industria che crollano. Il presidente della giunta regionale, e non solo lui, ha il dovere di ascoltarci».
Altrimenti?
«In prima battuta procediamo a una formale diffida, poi batteremo altre strade. Ma io spero non sia necessario arrivare a questo».
Scadenze a parte, come mai fate questa battaglia solo ora?
«Giugno 2013 è alle porte, rappresenta l’ultima spiaggia. In caso contrario siamo destinati a finire nel baratro. Le industrie e il lavoro stanno scomparendo».
Non è che pensa alle prossime Regionali?
«La politica non m’interessa. Ho lavorato molto nella mia vita, insegnato a leggere e a scrivere ai miei otto fratelli, che oggi sono tutti laureati. Ho quattro nipoti e un’esistenza piena. Un partito come tale non m’interessa, al massimo accetterei una candidatura da tecnico».
di Giorgio Pisano
Nessun commento:
Posta un commento