Mezzo milione di morti all’anno, una vittima al minuto. E’ il record delle armi “civili”, pistole e fucili, di cui l’Italia è leader. Sono queste le vere “armi di distruzione di massa”, secondo Kofi Annan: produttrice leader, l’industria italiana ne è il secondo esportatore mondiale. Nel 2011 abbiamo esportato armamenti per tre miliardi di euro, spiega Francesco Vignarca, coordinatore di “Rete Disarmo” e redattore di “Altra Economia”: «Ogni anno è un business che non cala, che coinvolge centinaia di aziende e che poi va a ricadere anche sulle banche, che finanziano e incassano i soldi per questi armamenti, senza controllo, con soldi di finanziamenti pubblici che arrivano addirittura dal ministero per lo Sviluppo economico». Il bombardamento sulla Libia? «E’ stato il più pesante che la nostra aeronautica abbia fatto dalla Seconda Guerra Mondiale». E il giorno in cui scattò l’offensiva contro Gheddafi, l’allora ministro Ignazio La Russa era in Medio Oriente, a una fiera internazionale di armamenti.
Il business delle armi, aggiunge Vignarca in un intervento sul blog di Beppe Grillo, vale appena il 2,5% del commercio planetario, eppure «è responsabile di oltre il 40% di tutta la corruzione mondiale» perché è dominato dalle commesse che arrivano dalle entità pubbliche, e quindi «è facile accaparrarsi una commessa corrompendo qualche funzionario». I Paesi protagonisti di questo business sono sempre gli stessi, a partire da quelli che siedono nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: Usa, Russia, Gran Bretagna e Francia, più il consorzio europeo Eades (che include anche Germania e Spagna) e ovviamente l’Italia. Da noi, la parte del leone spetta a Finmeccanica, controllata dal ministero del Tesoro: è irrazionale, sostiene Vignarca, che il colosso italiano delle armi abbia al suo interno la maggioranza delle controllate fuori dai confini nazionali, «per esempio in paesi come l’Olanda che garantiscono un trattamento fiscale migliore». Un paradosso: «Industrie controllate dallo Stato cercano di pagare meno tasse allo Stato che le controlla».
Famoso il caso del cacciabombardiere “stealth” di ultima generazione, l’F-35: solo l’acquisto costa 12 miliardi di euro, cifra «va triplicata» lungo l’intero ciclo del progetto, perché «in aeronautica il costo vero è quello del mantenimento». Per che cosa? «Per avere una superiorità aerea di bombardamento, per poter portare missili a testata nucleare», cosa che in teoria confligge con l’impostazione della Costituzione italiana. Idem per gli “addestratori” nostrani, i velivoli da addestramento M-346 prodotti dalla Aermacchi in provincia di Varese: verranno venduti in 30 esemplari a Israele, «facendo carta straccia di quella che è la legge italiana sull’export di armi, che prevede che gli armamenti non possano essere esportati a Paesi in conflitto, dove ci siano gravi violazioni dei diritti umani». Eppure: all’ultima fiera di Farnborough, in Gran Bretagna, «la stessa Finmeccanica ha fatto vedere che sotto questi “addestratori” ci possono stare tranquillamente delle bombe: quindi saranno degli aerei molto leggeri e maneggevoli, che potranno servire anche a bombardare della popolazione civile», magaripalestinese, libanese o iraniana.
Triste anche il record della Grecia: storicamente è il paese che ha speso di più in armamenti, fino al 4% del suo Pil. Dissanguata dalla scure di Bruxelles, della Bce e del Fmi, ma pronta a pagare – fino all’ultimo – le commesse militari “imposte” dai paesi leader tramite i soliti politici locali compiacenti. E’ l’ennesimo “affare sporco” dell’Europa che ha appena avuto il Nobel per la Pace. «Nel momento stesso in cui ad Atene si chiedeva di tagliare gli stipendi, ridurre le spese per la sanità e quelle per il welfare – accusa Vignarca – Germania e Francia in primis hanno preteso che le commesse militari già in corso, in particolare per alcuni sottomarini tedeschi, continuassero, per svariate centinaia di milioni di euro». Perché i governi non riescono a dire no agli interessi delle industrie delle armi? «Perché le armi sono veramente un affare di Stato: chi spende sono proprio i governi, le spese militari mondiali l’anno scorso hanno superato i 1.700 miliardi di dollari. In un anno, vuol dire più del doppio di quello che è il budget delle Nazioni Unite».
Val Forget, veterano dei mercanti d’armi, chiarisce con una battuta: «Dimenticatevi le storie dei romanzieri, se c’è qualche cassa di armi che finisce in giro per il mondo è perché dietro c’è il controllo di qualche agenzia governativa». La campagna internazionale “Control Arms” ha portato una petizione da più di un milione di voti in tutto il mondo. Arrivata in sede Onu, racconta Vignarca, è stata bloccata dai veti incrociati: quello degli Usa, che non volevano mettere sotto controllo le munizioni per il loro mercato interno di armi leggere, e i “niet” di Russia e Cina, che «vogliono continuare a poter foraggiare i Paesi alleati», nell’instabile geopolitica mondiale. Ma lacampagna di controllo delle armi è stata frenata anche dall’Italia: favorevole – a parole – alla stipula di un trattato generale, a patto però che venissero escluse le armi leggere, ovvero le “armi di distruzione di massa” in cui il nostro paese è uno dei primi tre produttori al mondo.
«Vogliamo che ci sia una riconversione della spesa militare, che è improduttiva e inutile, soprattutto in questo momento di tagli, dove si alza l’Iva, dove comunque gli interventi sono draconiani riguardo alla scuola, all’istruzione, sanità», chiedono i “disarmisti” italiani, preoccupati che «questi soldi non vengano sprecati in qualcosa che non ci garantisce assolutamente più difesa». Secondo Vignarca, l’unico vero della spesa militare è quello di «garantire affari a pochi manager, a poche persone che traggono da questa dinamica dei profitti inenarrabili». Primo traguardo da raggiungere, un minimo di trasparenza: «Gli Stati non vogliono che le armi siano sotto controllo e che si possa sapere a chi vengono vendute e dove vengono usate. Ne è riprova il fallimento nel luglio di quest’anno delle consultazioni Onu per un trattato internazionale sul commercio di armi, che potesse dare regole certe, sicure». Crisi o non crisi, il timore è che il torbido super-business delle armi non declinerà.
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