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giovedì 1 novembre 2012

12 DOMANDE SUL DEBITO E COME USCIRNE CON EQUITA' (seconda parte)


7. Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito pubblico?
R. Il debito è come una tavola a cui si presentano degli ospiti inattesi. Si può decidere di respingerli e il problema è risolto, ma se si accolgono ci sono due soli modi per servire anche loro: ridurre le razioni di tutti o aumentare le portate. Ed ecco la crescita come soluzione del debito in alternativa ai tagli e agli aumenti di tasse.
L'argomentazione è che se aumenta la ricchezza prodotta, automaticamente dovrebbe aumentare anche il gettito fiscale e quindi le risorse per il pagamento di interessi e capitale. Ma la crescita pone tre ordini di problemi: una questione di soldi, una questione di diritti, una questione di compatibilità ambientale.
La questione dei soldi si pone perché per investire le imprese hanno bisogno di stimoli. Se si tratta di imprese orientate al mercato interno, come quelle delle costruzioni e delle infrastrutture, richiedono ordini. Si aspettano che lo stato le ingaggi per la costruzione di strade, ponti, ferrovie, acquedotti. Se si tratta di imprese orientate al mercato globale richiedono sovvenzioni. Si aspettano che lo stato le aiuti con finanziamenti alla ricerca, con facilitazioni fiscali e riduzione degli oneri sociali, in modo da avere meno costi e quindi essere più competitive. Ma dove trovare i soldi se il fondo del barile è già stato raschiato? L'indicazione delle imprese è tagliare ulteriormente le spese correnti per recuperare risorse per loro. Così la crescita si trasforma in antagonista delle spese sociali.
Sapendo di non avere soldi da spendere, il governo Berlusconi ha cercato disperatamente delle scorciatoie per favorire le imprese a costo zero. Ma l'unica via che ha trovato è la riduzione del costo del lavoro tramite la riduzione delle garanzie contrattuali: preminenza dei contratti aziendali sui quelli nazionali, maggiore libertà di licenziamento, minori tutele nelle assunzioni. Così la crescita si trasforma in antagonista dei diritti dei lavoratori.
Ma il problema principale è che oggi non ci sono più margini per la crescita. E non tanto per ragioni economiche, quanto ambientali. Le nostre economie sono già cresciute fin troppo, se tutti i paesi del mondo pretendessero di raggiungere i nostri livelli di ricchezza, il pianeta collasserebbe. L'assottigliarsi delle risorse e la necessità di ridurre l'inquinamento ci impongono sobrietà nei consumi e prudenza nella produzione. La nostra sfida non è accrescere la produzione, ma ristrutturarla in modo da garantire a tutti di vivere bene nel rispetto dei limiti del pianeta. Per riuscirci dobbiamo aver chiaro che il benessere non si misura con la quantità di lattine di coca-cola che buttiamo nel carrello della spesa o col numero di apparecchi televisivi che abbiamo per casa. Prima che dalle cianfrusaglie di mercato, la dignità personale dipende dalla qualità dell'abitare, dalla possibilità di curarsi e vivere in buona salute, dalla capacità di esercitare pienamente le funzioni di cittadino sovrano, dalla possibilità di fare comunità, dalla possibilità di potersi nutrire, vestire, muoversi, scaldare a buon mercato. Per questo il vero sviluppo, quello umano e sociale, non dipende dalla crescita del prodotto interno lordo, ma dal grado di equità, di inclusione lavorativa, di solidarietà collettiva che siamo capaci di mettere in atto. Dipende dal livello di diritti che sappiamo garantire, dalla quantità e qualità dei servizi collettivi che sappiamo fornire, dal tipo di città che sappiamo strutturare, dalle forme e dai tempi di lavoro che sappiamo organizzare, dalle forme di partecipazione che sappiamo promuovere.
Non di più, ma meglio e diverso devono essere le nuove parole d'ordine. Non si tratta di creare nuove fabbriche, ma di trasformare quelle esistenti per renderle più eco-compatibili e metterle in condizione di produrre ciò che serve secondo nuovi schemi di consumo orientati ai bisogni fondamentali per tutti. Trasformarle non solo da un punto di vista tecnico, energetico e produttivo, ma anche dell'assetto proprietario, delle forme di assunzione, dei tempi di lavoro, dei livelli salariali, dei diritti sindacali, tenendo a mente che il lavoro non è un costo da comprimere, ma una ricchezza da valorizzare. Una funzione che tutti abbiamo il diritto-dovere di svolgere in forma dignitosa e sicura per poter prendere parte alla ricchezza prodotta. E non solo in ambito mercantile, ma sempre di più in ambito collettivo perché quando le risorse si fanno scarse non è espandendo il mercato, ma l'economia della solidarietà collettiva, che si può permettere a tutti di vivere con dignità.
Dunque non è alla crescita che dobbiamo puntare, ma a un altro modello organizzativo che pur mantenendo consumi e produzione al minimo, consente a tutti la piena inclusione lavorativa, il pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali, la piena realizzazione umana, sociale e politica. Ma per riuscirci è quanto mai necessario trovare un via di uscita dal debito alternativa a quella presente, per non trovarci del tutto spogliati.

8. Cosa significa “congelamento del debito?”
R. Congelare il debito non significa dichiarare fallimento, o default, come dicono gli inglesi. Il fallimento è una dichiarazione di resa assunta per impotenza economica. Il congelamento è una dichiarazione di volontà assunta per decisione politica. E' il sussulto di un popolo che si riappropria della propria sovranità.
Congelare il debito significa sospendere il pagamento di capitale e interessi, a banche, fondi e assicurazioni, per un periodo di tempo di uno o due anni, in modo da recuperare quella libertà e quella cognizione di causa necessarie a poter definire, in piena autonomia, criteri e tempi di uscita dal debito.
Il primo obiettivo del congelamento è mettere fuori gioco la speculazione in modo da non avere più la pistola dei mercati puntata alla tempia. Se gli speculatori sapessero che non si può ottenere più niente, perché i rubinetti dello stato sono chiusi, la smetterebbero con i loro giochetti per fare aumentare i tassi di interesse.
Portarsi fuori ricatto è già un passo importante per recuperare libertà decisionale, ma nel contempo bisogna fare luce sui fatti perché indagando possono emergere elementi che ribaltano la situazione. Oggi che conta solo l'interesse dei creditori, ci si focalizza solo sui numeri che misurano la capacità di pagamento dello stato. Ma se cambiamo prospettiva e mettiamo al centro della nostra attenzione la tutela della collettività, capiamo che prima di tutto dobbiamo studiare la formazione del debito per stabilire se persiste o meno l'obbligo del pagamento.
Quando i popoli del Sud del mondo hanno analizzato come si era formato il debito dei loro paesi, hanno scoperto che gran parte era stato accumulato per arricchire indebitamente politici e centri di potere economico. Pertanto lo hanno ripudiato perché non si può chiedere ai popoli di impiccarsi per ripagare le malefatte dei governanti con la complicità delle banche.
Dunque il secondo obiettivo del congelamento del debito è prendersi il tempo per condurre una seria indagine sulla formazione del debito in modo da definire quale parte è doveroso pagare perché utilizzato per il bene comune e quale parte, invece, è legittimo ripudiare perché dovuto a frode, ruberie, corruzione, sprechi, opere inutili e dannose, arricchimenti e regalie indebite a caste, banche, imprese.
Un'indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che esamini la lista dei creditori per capire se ce ne sono che da decenni si arricchiscono alle spalle del debito pubblico. In tal caso bisognerà fare un conto di quanto hanno incassato per stabilire se non sia arrivato il momento di dire basta. A meno che non si voglia affermare che la rendita è un diritto perpetuo, bisognerà pur stabilire quando cessa il diritto del creditore a pretendere un compenso dal debitore. Ad esempio, quando l'esborso per interessi è pari al doppio del capitale non potrebbe aver senso annullare ogni rapporto di dare e di avere?
E ancora non basta. Una seria indagine deve occuparsi anche delle entrate perché se è vero che il deficit è una sfasatura fra entrate e uscite non è detto che la responsabilità sia solo dell'eccesso di spesa. Può essere dovuto anche a una carenza di entrate. In Italia, ad esempio, abbiamo un tasso di evasione altissimo e sappiamo che dal 1982 ad oggi si sono abbassate le aliquote oltre i 75000 euro dal 72 al 45%. Per lo stato ha significato senz'altro un mancato incasso che gli ha procurato un doppio danno: il peggioramento del debito e un maggiore esborso per interessi. Per i ricchi, invece, si è trattato di un doppio guadagno: mancato esborso fiscale e incasso di interessi perché la beffa è che i soldi risparmiati sono finiti comunque allo stato, ma sotto forma di prestito. E allora chi è il vero debitore: il popolo depredato dai ricchi o i ricchi che hanno derubato il popolo?

9. Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento del debito?
R. Ogni volta che uno stato osa sfidare le regole imposte dai creditori, si paventano scenari tenebrosi per il loro futuro. In realtà i paesi che in passato hanno avuto il coraggio di dichiarare una moratoria sul pagamento del debito, non sono naufragati, ma sono rinati. Lo mostra l'esperienza della Russia nel 1998, dell'Argentina nel 2001, dell'Ecuador nel 2007.
L'Ecuador, tra l'altro, è un esempio concreto di inchiesta sul debito. Sette mesi dopo la propria elezione, il neo presidente Rafael Correa ha istituito una commissione d'inchiesta formata da 18 esperti che hanno cominciato a lavorare nel luglio 2007. Dopo 14 mesi di lavoro hanno consegnato un rapporto che mostrava chiaramente l'esistenza di numerosi prestiti accesi in violazione delle più elementari norme di legalità. Sulla base di tali risultanze, nel novembre 2008 il governo ha dichiarato la sospensione del pagamento di titoli in scadenza nel 2012 e nel 2030. Finalmente il governo di questo piccolo paese è uscito vittorioso da una prova di forza con le banche nord-americane e per 900 milioni di dollari ha ricomprato titoli del valore nominale complessivo di oltre 3 miliardi. Se si considerano anche gli interessi annullati, il risparmio totale per l'Ecuador è stato di 7 miliardi di dollari che il governo può spendere per spese sociali, sanità, istruzione, trasporti.
Certo si dirà che la posizione dell'Italia non è quella dell'Ecuador, e uno sgarbo ai creditori potrebbe costarle la fuga massiccia di capitali, l'espulsione dall'euro, una catastrofe economica a causa del fallimento delle banche. Tutte ipotesi che andrebbero verificate non solo per capire quante probabilità hanno di avverarsi, ma anche per stabilire se siano realmente minacce o se invece non potrebbero rivelarsi delle opportunità.
Premesso che nessuna forza economica, sia essa bancaria, finanziaria, o commerciale, ha interesse a mandare a fondo un paese come l'Italia, perché loro sarebbero i primi a rimetterci, va precisato che se anche perdessimo capitali forse non sarebbe un gran danno dal momento che non sono impiegati per attività produttive, ma per iniziative speculative. Quanto alla nostra presenza nell'euro, si impone una valutazione fra costi e benefici. Sicuramente ci hanno guadagnato le imprese fortemente inserite nel mercato europeo, ma ci hanno perso, fino a morire, molte piccole a vocazione locale, che sono state sgominate dalle potenti imprese tedesche o francesi. Da più parti si richiede, se non di uscire dall'euro, di consentire la contemporanea circolazione di monete regionali, per favorire le imprese locali. E se proprio dovessimo tornare alla lira, forse non sarebbe del tutto negativo. Quanto meno restituiremmo al nostro stato il potere di controllo sulla moneta, sui tassi di interesse e sui tassi di cambio, tutti strumenti di governo dell'economia oggi perduti a favore di Bruxelles che li gestisce unicamente nell'interesse delle banche e dei grandi gruppi speculativi.
Infine l'ultima minaccia: il fallimento delle banche. A questo mondo tutto è possibile, ma stando ai fatti, i titoli pubblici che le banche detengono solo raramente e in piccola parte si trasformano in denaro sonante. Solitamente se ne stanno chiusi nelle casseforti e quando arrivano a scadenza non provocano un incasso di denaro, ma una partita di giro perché la somma disponibile è subito riutilizzata per l'acquisto di titoli di nuova emissione. Tutto questo per dire che stiamo parlando di ricchezza virtuale scritta nei libri contabili, che i detentori usano più come strumento giuridico per avere diritto a una rendita, che come ricchezza da spendere. Se i titoli pubblici si deprezzassero o venissero cancellati, la banca risentirebbe un danno più per i mancati interessi che per la perdita patrimoniale. Perciò un danno contenuto che certo può ripercuotersi negativamente sugli azionisti e sui dipendenti, ma che difficilmente porta al fallimento bancario. Evento che può comunque essere prevenuto con opportuni interventi legislativi.
Fonte: Eric Toussaint, La dette ou la vie, CADTM 2011.

10. E' vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche non avranno più indietro i loro depositi?
R. Da un punto di vista strettamente finanziario la risposta è no. Ma la capacità delle banche di rifondere i propri clienti è fortemente influenzata dalla fiducia di cui godono. In condizioni di normalità le banche soddisfano tranquillamente le richieste di rimborso, non perché abbiano in cassa l'equivalente di tutti i depositi, ma perché i clienti che chiedono di avere indietro i loro soldi sono relativamente pochi.
Detta molto schematicamente, il mestiere delle banche è guadagnare sull'impiego di soldi ottenuti da terzi, creando una differenza fra i tassi di interessi pagati e quelli incassati. Pertanto hanno la convenienza a impiegare tutto ciò raccolgono, lasciando nel cassetto il meno possibile. In condizioni normali questa situazione non preoccupa perché è dimostrato che il numero di persone che si presentano per ritirare i propri risparmi sono pochi e in ogni caso lo fanno solo per ragioni economiche. Tutti gli altri, che non si trovano in stato di bisogno, dormono sonni tranquilli perché sentono i propri soldi al sicuro. Ma questo equilibrio può rompersi se per una ragione qualsiasi la  gente perde fiducia sull'affidabilità delle banche. In quel caso tutti si precipitano a ritirare i propri depositi ed è la volta buona che non li ottengono perché di soldi in cassa non ce ne sono.
In caso di congelamento del debito, può scatenarsi una sfiducia collettiva che spinge a dare l'assalto alle banche, ma molto dipende da come lo stato gestisce la situazione.
Va comunque tenuto presente che il rischio fallimento delle banche è reale e non tanto per le quote di debito pubblico che detengono, ma per il rischio di perdere somme colossali che hanno investito in spregiudicate operazioni di speculazione finanziaria.  Non a caso i governi occidentali hanno già sborsato 13000 miliardi di dollari per salvare le banche e altri ne stanno cercando. Tutto questo per dire che oggi non c'è più nessuna certezza e che i primi ad avere l'interesse a rimettere le cose a pulito sono proprio i piccoli risparmiatori. Una proposta in tal senso è quella di nazionalizzare le banche per la parte che coinvolge i risparmiatori e le imprese, lasciando che tutto il resto sia abbandonato al proprio destino, esattamente come hanno fatto in Islanda.

11. E' possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie che hanno investito in Buoni del Tesoro?
R. Poichè i Buoni del Tesoro sono nominativi, il congelamento del debito può essere gestito in maniera altamente selettiva, in base ai detentori e all'ammontare posseduto. Quindi può essere stabilito che vengano esclusi dal congelamento i titoli intestati a persone fisiche al di sotto di un certo valore per non compromettere la loro sicurezza di vita.

12. Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico senza danno sociale?
R. Prima di tutto bisogna abbatterne la dimensione, individuando, tramite apposita Commissione d'inchiesta, la parte da ripudiare perché illegale, illegittima e odiosa. Ma se l'ammontare da ripagare persiste eccessivo, si impone la necessità di ristrutturarlo tramite un ridimensionamento d'imperio o negoziazioni con i creditori in modo da ridurre il peso degli interessi e del capitale da restituire.
In ogni caso serve un piano di restituzione che definisca tempi e modalità di finanziamento. Il che significa agire sia sul piano delle entrate che delle uscite. Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna ripristinare una seria politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito. Contemporaneamente bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata oltre misura, sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli. Oggi perfino la Confindustria sostiene una simile proposta, evidentemente per paura che l'eccesso di disuguaglianza o di sacrifici sociali possa scatenare una pericolosa sollevazione popolare. Di sicuro il risultato sarebbe garantito: Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica, ha calcolato che un'imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del loro valore, potrebbe garantire un introito sufficiente a poter dimezzare il debito pubblico.
Il discorso sulle entrate potrebbe continuare con misure contro l'evasione fiscale e l'economia in nero che procura un mancato incasso di oltre 120 miliardi di euro l'anno. Nel contempo si dovrebbe lavorare anche sul piano delle uscite. Bisognerebbe eliminare ogni forma di spreco e di privilegio a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche. 
Bisognerebbe ridurre le spese militari ritirandoci da ogni missione neocoloniale e cancellando qualsiasi sistema d'arma a scopo offensivo. Si dovrebbero abbandonare tutte le opere faraoniche utilizzando gli stessi soldi per il risanamento dei territori, il potenziamento delle infrastrutture e delle economie locali, la riconversione della produzione in un'ottica di sostenibilità, il miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.

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