per il Piano-B
Una alleanza tra paesi sul modello della sudamericana “Alba”, oppure un ritorno alla fluttuazione in un regime di doppia moneta; terzo, una trattativa a viso aperto con la Germania. Mentre tutti si accaniscono su come “tenere l’Italia nell’euro”, il dibattito sul cosiddetto “piano B” per fortuna non langue. Un dibattito cominciato mesi fa, quando lo spread era ancora un gattino dalle unghie corte e dalla Merkel ci si poteva aspettare anche un invito a cena. Poi tutto è cambiato, e piuttosto rapidamente. Ora in molti si stanno accorgendo che il “gioco non vale la candela”. Soprattutto, da quando la vicenda della Grecia ha messo un punto definitivo sull’efficacia delle politiche di austerità. Cioè, i costi sono tali che o portano al disastro sociale, politico ed economico, oppure posticipano talmente tanto in là il momento della cosiddetta ripresa che il sacrificio diventa un lento e inesorabile depauperamento.
Il fatto che alla fine l’Ue abbia dovuto aprire per forza il doloroso capitolo dell’“haircut”, ovvero del taglio degli interessi sul debito, è la controprova che la strada della “stabilizzazione del debito” è davvero senza uscita. Rimanere nell’euro potrebbe portare seri danni. Del resto, come fa notare il professor Bruno Amoroso, le tre grandi promesse della moneta unica – protezione dall’inflazione, protezione dalla speculazione finanziaria e rafforzamento del processo di coesione sociale e territoriale dell’Unione Europea – sono completamente fallite. E non basta più qualche semplice aggiustamento. La battaglia per una via di uscita dignitosa, secondo Amoroso, ricomincia dalla riconquista di spazi di flessibilità nazionale e meso-regionali per le politiche economiche. «Il primo passo deve essere, per i paesi dell’Europa del Sud, la rinegoziazione dei loro apporti valutari con gli altri paesi dell’Unione», aggiunge Amoroso.
Le procedure per questo tipo di operazioni esistono e sono ben collaudate: chiusura provvisoria delle frontiere finanziarie per i paesi impegnati nel processo di rinegoziazione e rivalutazione degli assets and liabilities esteri. «I contratti finanziari interni possono essere trasferiti nella nuova valuta – nazionale o di area come nel caso di un “euro-sud” – e al termine di queste negoziazioni, delle quali la sede potrebbe essere la Commissione Europea (cioè i ministri delle finanze dei vari paesi), i mercati valutari potrebbero riaprire». Nel caso dei paesi europei, questo produrrebbe una svalutazione delle monete (come è avvenuto in Irlanda e Islanda) ma consentirebbe spazio a politiche economiche a vantaggio della ripresa delle attività produttive e dell’interscambio tra i paesi del Sud. «L’effetto della svalutazione è anche quello di ridurre le importazioni e, quindi, favorire la ripresa dei sistemi produttivi locali e nazionali o meso-regionali».
Secondo Luciano Vasapollo, professore di statistica all’università “La Sapienza” di Roma, la ricerca di un’area comune, meglio se “mediterranea”, è un passaggio più che obbligato, ma pur sempre in presenza di «un nuovo protagonismo della classe lavoratrice in una visione internazionalista capace di porsi sul terreno di percorsi e processi di lotta». L’obiettivo sarebbe quello di creare un’area «per uscire contemporaneamente e in maniera congiunta dall’euro» da parte di tre, quattro o cinque paesi, «per costruire un’alleanza economica e commerciale, con una moneta virtuale di compensazione. Questa formula – aggiunge Vasapollo – doterebbe questi territori della stessa forza che ha oggi l’“Alba” in America Latina».
Diversamente dall’ipotesi di Amoroso, il nodo rimarrebbe quello dell’azzeramento del debito, superabile – nella prospettiva di Vasapollo – da un atto politico e di lotta. «Nello stesso tempo – conclude Vasapollo – è necessario nazionalizzare le banche, che significherebbe poter orientare la linea di credito verso i settori strategici e, come anche si sta facendo nell’“Alba”, nazionalizzare i settori energetico, trasporti e telecomunicazioni, rafforzando il ruolo pubblico e gratuito di efficienti servizi nella sanità, istruzione sistemi pensionistici e di sostegno al reddito». Tutto ciò «darebbe un ulteriore impulso all’economia in una dimensione sociale, efficiente e solidale».
Emiliano Brancaccio, docente all’università del Sannio, prova un approccio più “contrattualista”. «Cercando di seguire il dibattito interno ai gruppi di interesse prevalenti in Germania interno alla Buba – dice Brancaccio – ho capito che non c’è alcun interesse a cambiare l’assetto della politica economica europea. E’ vero che pagano la crisi, ma la pagano in termini relativi – sottolinea Brancaccio – molto meno di noi e, per certi versi, ci guadagnano. Basta vedere l’andamento dell’occupazione, che ha aumento nella crisi un milione e mezzo di unità». Un quadro pragmatico di quanto sta accadendo e che consiglia, secondo Brancaccio, di tentare il confronto a viso aperto con la Germania. Che «non teme nemmeno più l’uscita dall’euro di alcuni paesi».
«Pensiamo, infatti, al quadro che si determinerebbe il giorno dopo, con i tedeschi pronti a fare shopping sui mercati deboli: l’unica cosa che li spaventa realmente – conclude Brancaccio – è che usciamo dalla zona e attiviamo dei meccanismi neoprotezionistici. Cioè, fondamentalmente, non mettiamo solo in discussione la moneta unica, ma anche il mercato unico: è l’unica carta che i paesi periferici dell’Unione possono giocare al tavolo delle trattative». E l’area comune che fine fa in questo schema? «Come spesso è accaduto in Europa – risponde Brancaccio – l’interrogativo fondamentale è capire se la Francia sceglierà di aderire a un’alleanza carolingia e quindi si aggregherà alla Germania o sarà costretta ad uscire. Chiaro che una alleanza fatta con la Francia diventerebbe una alleanza più facile da gestire perché potrebbe risultare per molti versi autonoma dal punto di vista della produzione e del consumo».
Per Antonella Stirati, docente di economia all’università di “Roma Tre”, infine, se non si riesce a trovare una soluzione dentro l’euro «il problema di sottrarsi si pone seriamente», perché «se si continua così – aggiunge – l’economia va a gambe per aria. Quello che avrebbe senso, se dovesse fallire l’euro, è fare dei tentativi in una direzione simile all’America Latina», prosegue Stirati. Tecnicamente, vuol dire «avere una moneta comune per saldare gli scambi tra paesi, e con un margine di riallineamento, e una moneta per i pagamenti internazionali. E questo ci eviterebbe di pagare in dollari».
(Fabio Sebastiani, “L’euro, oppure? L’opinione degli economisti sul cosiddetto Piano-B”, dal blog “Contro la crisi” dell’11 dicembre 2012).
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