Nessuno ne parla più. D’altronde il pericolo di un nuovo bavaglio all’informazione web sembrava essere scongiurato dopo che il ddl salva-Sallusti era stato epurato nei suoi (imbarazzanti) provvedimenti contro blog e testate telematiche (diritto all’oblio, mediazione obbligatoria e obbligo di rettifica). In realtà l’allerta deve necessariamente restare altissima. Il clima politico di questi ultimi giorni è più che mai rovente e senza dubbio è destinato a surriscaldarsi ulteriormente man mano che ci avvicineremo alla fatidica data del 24 febbraio. Nessuno dei personaggi politici in corsa, d’altronde, digerirebbe una notizia scomoda sul suo conto: si rischierebbe, gioco forza, di compromettere tutta una campagna elettorale. Quanto accaduto solo pochi giorni fa sulla pagina wikipedia di Mario Monti è un esempio lampante: nella notte tra il 24 e il 25 dicembre è stato cancellato un intero paragrafo sui risultati (non proprio encomiabili) della gestione Monti e ammorbiditi i rimandi al gruppo Bilderberg e alla Commissione Trilaterale.
La domanda a questo punto nasce spontanea: in che modo l’informazione web, nell’attuale vuoto legislativo, rischia di essere imbavagliata? C’è concretamente questa possibilità? La risposta è sì. Vediamo perché.
ALESSANDRO SALLUSTI, LO SPECCHIETTO PER LE ALLODOLE
Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, viene condannato dalla Corte di Cassazione a 14 mesi di carcere. Un caso unico quello italiano: nelle altre democrazie occidentali il reato di diffamazione appartiene al codice civile. Soltanto nel nostro Paese si rischia una pena carceraria per quello che si scrive. Immediata la reazione di tutte le forze parlamentari: bisogna modificare la norma. In men che non si dica viene confezionato un disegno di legge che salvi il giornalista. Peccato però che la cancellazione del reato penale per la diffamazione altro non è che uno specchietto per le allodole: vengono infatti inserite altri provvedimenti (gli ennesimi) nel tentativo di imbavagliare l’informazione, soprattutto quella più pericolosa perché meno controllata e indirizzata, quella telematica. Nella bozza del testo, infatti, viene introdotto il diritto all’oblio, ossia il diritto di chiedere a un sito web o a un motore di ricerca di cancellare un articolo, un link, un’immagine che, pur veri, possono a distanza di tempo ledere la reputazione del diretto interessato. Facciamo un esempio per capirci: se un bel giorno Silvio Berlusconi si svegliasse e ritenesse “offensivi” (poiché non c’è stata mai alcuna condanna) tutti gli articoli in cui il suo nome è accostato a quello di Cosa Nostra, potrebbe chiedere la rimozione di tutti i link, articoli o immagini che mostrino questo legame. Le multe previste, peraltro, sono più che ingenti: da 5 a 100 mila euro. Non solo. Nel disegno spunta anche l’obbligo di rettifica, per blog e testate online, entro 48 ore. Anche in questo caso multe pesantissime previste:fino a 100 mila euro.
La vicenda Sallusti, insomma, altro non era che l’opportunità per inserire provvedimenti che impedissero di far circolare notizie scomode sul web. L’ennesimo tentativo di bavaglio. Mentre tutti erano presi a difendere il direttore de Il Giornale si è pensato bene di prendere la palla al balzo. L’occasione, d’altronde, fa l’uomo ladro.
IL DDL NAUFRAGA. PER ORA
Il coro di proteste ad una norma nata con le migliore intenzione ma poi dimostratasi assolutamente iniqua e indegna di un Paese democratico è fortissimo. Tanto che il disegno viene subito modificato ed epurato appena arriva in Assemblea:le norme anti-web scompaiono. Ma, d’altronde, anche se fossero rimaste poco sarebbe cambiato dato che il ddl – come molti in questa legislatura – naufraga e si arena in Senato per non essere più approvato. Almeno per ora.
IL BAVAGLIO DELL’EUROPEA. I PAESI OBBLIGATI A RATIFICARE
C’è da tirare un sospiro di sollievo allora? Come detto, assolutamente no. Soprattutto per quanto riguarda il diritto all’oblio. Quasi un anno fa, lo scorso 25 gennaio, la Commissione Europea infatti ha approvato una riforma della privacy online nella quale viene inserita un articolo – il 17 – tramite cui si impone alle aziende del web di cancellare i dati personali degli utenti che ne faranno richiesta. La ratio della norma è ben precisa: “i dati personali sono nel mondo odierno la moneta del mercato digitale e come ogni moneta devono essere stabili e devono essere affidabili”. Sembrerebbe una tesi condivisibile in difesa della privacy. Peccato però che non sia proprio così. Si legge infatti direttamente dal comunicato di allora della Commissione che “il diritto all’oblio permetterà di gestire meglio i rischi connessi alla protezione dei dati online: chiunque potrà cancellare i propri dati se non sussistono motivi legittimi per mantenerli”. Ma di quali dati stiamo parlando? “Sono dati personali – si legge ancora - tutte le informazioni relative a una persona, alla sua vita privata, professionale o pubblica”. Anche ciò che è relativo alla vita pubblica e professionale. Ciò, in pratica, di cui nei fatti si occupa l’informazione. Non solo. Chiosa il comunicato: “tutto può essere dato personale”. In pratica, dunque, tutto può essere cancellato se arriva la richiesta.
Un grosso aiuto ai censori, dunque. Soprattutto perché i Paesi membri saranno obbligati a recepire la norma UE entro il 2015. In altre parole, se per ora i provvedimenti del salva-Sallusti sono stati accantonati, prepariamoci a vederli ratificati nella prossima legislatura.
LA CASSAZIONE CONFERMA: IL WEB È (FORSE) GIÀ IMBAVAGLIATO
A questo punto si dirà: perlomeno non ci saranno episodi di censura nella corrente campagna elettorale.Purtroppo non è detto sia così. A dar valore a quanto previsto dal regolamento UE è arrivata, nell’aprile scorso, una sentenza della Cassazione - la 5525/2012 - che potrebbe rendere operativa la norma europea prima del tempo debito. La sentenza infatti potrebbe fare giurisprudenza: un precedente a cui si potrebbero appellare in tanti. In pratica la Cassazione ha riconosciuto l’obbligo al diritto all’oblio anche per le testate online.
Il caso esaminato dai giudici della Suprema Corte è un classico: un esponente politico di un piccolo comune lombardo, appartenente al Partito Socialista, viene arrestato per corruzione nel lontano 1993, ma alla fine del procedimento giudiziario viene prosciolto. Ebbene, il politico lamenta che ancora ai tempi attuali, attraverso una normale ricerca in rete, la notizia che appare online, precisamente nell’archivio web de Il Corriere della Sera, è quella dell’arresto, senza fare riferimento al successivo epilogo favorevole della vicenda giudiziaria. Il politico chiede l’intervento della magistratura che accerta, appunto, il diritto all’oblio: il giornale è obbligato a cancellare l’articolo dall’archivio.
Condivisibile o meno che sia l’accaduto, riprendiamo il caso già avanzato di Silvio Berlusconi: con la sentenza della Cassazione nulla potrebbe impedire al Cavaliere di avanzare le stesse pretese del politico socialista. Con la conseguenza che tutto il materiale reperibile sulla rete su Berlusconi e i suoi (accertati) rapporti con Cosa Nostra scomparirebbero. In altre parole, le testate telematiche potrebbero essere obbligate a cancellare notizie e fatti di cronaca che, pur ‘veri’, sono talmente risalenti nel tempo da divenire oggi, a detta delle persone coinvolte, lesivi della loro dignità.
COSA CI ATTENDE. IL CASO “WIKIPEDIA”
Non bisogna d’altronde nemmeno fare esempi tanto lontani per avere un’idea di cosa ci potrebbe attendere nei prossimi giorni. Indicativo è quanto accaduto solo pochi giorni fa sulla pagina wikipedia di Mario Monti. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre è stato cancellato un intero paragrafo nel quale si ricostruivano i risultati (non proprio encomiabili) del governo tecnico. Riprendendo autorevoli quotidiani non certo ostili al governo Monti (La Repubblica, il Corriere della Sera, La Stampa, il Sole 24 Ore), si fornivano dati e statistiche su Pil, debito pubblico e crescita. Semplici numeri che, si vede, erano probabilmente troppo scomodi in periodo di campagna elettorale (qui le due versioni a confronto). Come se non bastasse, anche i riferimenti tra Monti e le (oggettive) associazioni internazionali private di cui il premier ha fatto parte sono stati decisamente ammorbiditi: scomparsa, ad esempio, la breve sezione sulla pagina wiki di Bilderberg in cui erano elencati i pochi italiani che avevano fatto parte dello steering committee, tra i quali Mario Monti, Romano Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, i fratelli Gianni e Umberto Agnelli.
Una censura tecnica, insomma. Che, per quanto detto, rischia di essere la prima ma non l’ultima.
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