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lunedì 28 ottobre 2013

USI ATTUALI E FUTURI DELLE CELLULE STAMINALI

Quello della lucertola è uno degli esempi che più piace raccontare ai ricercatori che si occupano di cellule staminali. Perché se questi rettili perdono la coda per autodifesa, o se gli viene tagliata, in poco tempo ricresce. Un po’ quello che vorremmo accadesse per certi organi o tessuti difettosi del nostro organismo. L’undici ottobre, tra le mura dell’Università Statale di Milano, alcuni dei più affermati ricercatori italiani hanno parlato della “Frontiera terapeutica delle staminali” durante una giornata organizzata dal centro di ricerca sulle cellule staminali UniStem. Ovvero al giorno d’oggi quali malattie possono essere curate con le staminali e quali saranno le prossime tappe?


Pelle e cornea

La primissima volta che le cellule staminale vennero usate a scopo curativo erano gli anni ’80. Alcuni ricercatori pensarono che forse le cellule sane della pelle, in grado di rigenerarsi di continuo, potevano essere usate per curare ustioni particolarmente gravi, che altrimenti in molti casi potevano rivelarsi fatali. L’ipotesi si rivelò giusta. Le cellule dell’epitelio di rivestimento, che ricopre l’interno ed esterno del nostro organismo, hanno continuamente bisogno di essere esfoliate e rigenerate, e ci riescono grazie alle cellule staminali. Una sorta di “riserva” di cellule non ancora differenziate che al momento del bisogno possono trasformarsi in cellule della pelle e garantire un ricambio per tutta la vita. «Noi abbiamo riprodotto quanto fatto per la pelle dei grandi ustionati sulla cornea – racconta a Linkiesta Paolo Rama, primario dell'unità operativa di oculistica dell’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano – che è sempre una superficie esterna del nostro organismo. Partendo da questa idea Graziella Pelligrini e Michele De Luca, a livello preclinico (studi su animali e in vitro), provarono a fare la stessa cosa per la superficie della cornea. Pubblicando poi, sulla rivista Lancet nel 1997, la dimostrazione che era possibile riprodurre questa procedura, anche per ricostruire lo strato superficiale della cornea».

Da lì è nata una collaborazione tra oculisti clinici e ricercatori di base che ha permesso di mettere a punto la metodica, rendendola riproducibile. Quando parliamo di cellule staminali è infatti necessario studiare nei minimi dettagli, come fare il prelievo delle cellule; come farle espanderle in coltura, aumentandone il numero pur mantenendole allo stato di cellule staminali; come somministrarle al paziente. Tutto deve essere provato, verificato, e seguire le norme di buona preparazione (Gmp) usate anche per i farmaci. Ma soprattutto deve essere riproducibile in qualsiasi laboratorio nel mondo. «Noi abbiamo cercator di rendere l’applicazione il più fattibile e riproducibile dal punto di vista clinico – continua a raccontare Rama – e alla fine tutte questo lavoro è stato riconosciuto con un articolo scientifico pubblicato sul Nejm».

Per quanto riguarda la cornea il trasferimento delle cellule staminali avviene tramite un supporto assorbibile di fibrina, simile a una lente a contatto. Quando questa lente viene messa a contatto con la cornea, lo strato di fibrina viene assorbito, e le cellule staminali trovano le loro sedi. In questo modo ricominciano a produrre un epitelio normale. «Tutte le superfici di rivestimento, come anche le vie respiratorie e gastrointestinali, contengono staminali e probabilmente un giorno si troverà una cura simile anche per questi tessuti» afferma il primario del San Raffaele.

Terapia genica

Un'altra area terapeutica dove di recente le cellule staminali hanno fornito risultati incoraggianti anche in studi clinici è la terapia genica applicata a staminali: anziché sostituire un gene difettoso (introdurre un gene può essere pericoloso perché può andare in qualsiasi cellula) si corregge il gene nelle cellule staminali, che poi vengono somministrate ai pazienti. In questo modo tutte le cellule figlie saranno corrette geneticamente. Quello di cui si occupa Alessandra Biffi, del Tiget di Milano: «Da oltre trenta anni le cellule staminali ematopoietiche (Cse) estratte dal midollo di donatori sani, sono impiegate per il trattamento del trapianto di midollo/di cordone, con risultati variabili a seconda della patologia considerata. Da circa dieci anni invece, sono stati sviluppati approcci di terapia genica basati sull'utilizzo di Cse autologhe (del paziente) e vettori virali in grado di correggere in queste cellule il difetto genetico alla base della malattia. Questi approcci sono stati per lo più testati in modelli preclinici e nel caso della nostra esperienza sulla leucodistrofia metacromatica hanno raggiunto una fase di sperimentazione clinica, con risultati ad oggi molto promettenti».

Malattia trapianto contro ospite

Poi ci sono le cellule mesenchimali, staminali che rilasciano fattori in grado di regolare azioni e meccanismi all’interno dell’organismo. In questo caso le staminali hanno più un effetto terapeutico che sostitutivo: danno uno stimolo e poi scompaiono, come fosse una terapia farmacologica attraverso cellule. Martino Introna, responsabile scientifico del Laboratorio di terapia cellulare degli Ospedali Riuniti di Bergamo, racconta a Linkiesta che «le cellule staminali mesenchimali ottenute da colture a lungo termine (circa un mese) di campioni di midollo osseo, hanno forti capacità immunosoppressiva e anti infiammatoria, entrambe studiate sia in vitro che in vivo in molti modelli sperimentali. Da alcuni anni queste cellule vengono impiegate anche in situazioni cliniche caratterizzate da gravi stati di infiammazione e autoimmunità in cui i tradizionali farmaci anti infiammatori (come il cortisone) hanno fallito. In particolare noi abbiamo ricevuto specifiche autorizzazioni dall'Istituto Superiore di Sanità e dalla Agenzia Italiana del Farmaco per condurre dei trials clinici sperimentali di fase I/II con queste cellule mesenchimali staminali midollari in pazienti affetti da sclerosi multipla , in pazienti in insufficienza renale cronica che ricevono un trapianto renale da donatore vivente e in pazienti con malattia trapianto contro ospite e resistente agli steroidi».

Medicina rigenerativa cardiovascolare

«Il campo cardiovascolare è un po’ complesso e a oggi gli studi clinici danno un’indicazione di proteggere, più che rigenerare il cuore – spiega a Linkiesta Maurizio Pesce del Laboratorio di ingegneria tissutale cardiovascolare del centro cardiologico Monzino di Milano – con risultati piuttosto modesti rispetto altri». In questo caso vengono usate cellule prese dal sangue periferico o dal midollo dei pazienti, che dopo purificazione secondo Gmp, vengono rinfuse nel paziente. Le principali applicazioni sono due: ischemia del miocardio (cuore) e periferica (vasi). La prima con diversi trattamenti convenzionali che in alcuni casi però non danno l’effetto sperato, la seconda con scarsa possibilità di trattamento.

«Poi ci sono terapie più di frontiera che ancora non sono arrivate in clinica – continua Pesce – come l’ingegnerizzazione dei tessuti. Processo che coinvolge anche molte altri discipline come la bioingegneria, la scienza e fisica dei materiali. Il sogno è arrivare alla “produzione” di un vaso completamente artificiale che possa essere utilizzato come bypass naturale, per un intervento di riperfusione del miocardio ischemico, e che non vada incontro a restenosi».

Il secondo obiettivo di cui parla il ricercatore del Monzino è quello di istruire la cellule del miocardio a rigenerare il cuore dopo infarto. Un’altra area di ricerca di base legata allo screening di materiali biocompatibili che potrebbero essere usati per combinare cellule diverse e generare un tessuto in grado di integrarsi e andare a sostituire quello morto o danneggiato. Chi si occupa di ingegneria tissutale cardiovascolare sta cercando di seguire un approccio simile a quello seguito per la cornea, dove però è tutto più facile perché le cellule sono di un tipo solo e la struttura del tessuto e laminare, formata da un solo strato. Il cuore invece è più complicato, si trovano diversi tipi di cellule ha un’architettura più complessa.

Costruire un tessuto in grado di sostituire le parti mancanti o danneggiate di un organismo. Oppure utilizzare combinazioni di materiali per istruire il tessuto danneggiato ad andare verso la rigenerazione, attraverso un’operazione di risveglio delle staminali. Un po’ come fa la lucertola. Queste saranno le ricerche di frontiera che vedranno una sperimentazione preclinica non prima di 5 o 6 anni.


Twitter: @cristinatogna


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