di Adriana Cerretelli, da Il Sole 24 Ore
Un vertice europeo per niente? «I leader europei farebbero meglio a stare a casa se devono venire a Bruxelles per non decidere nulla sulla creazione di una vera unione economica e monetaria. È possibile che decidano sul sistema unico di sorveglianza bancaria ma non l'avevano già fatto in giugno e in ottobre?», ha ironizzato ieri Guy Verhofstadt, l'ex-premier belga oggi leader dei liberali all'europarlamento.
Nel giorno in cui Ben Bernanke lancia la sua rivoluzione monetaria per rivitalizzare l'economia americana che cresce troppo poco (+2,1% quest'anno) per riassorbire la disoccupazione (7,7%), il contrasto con il surplace dell'Europa diventa sempre più stridente e paradossale.
Negli Stati Uniti, infatti, la Fed non solo raddoppia la forza della sua politica espansiva e abbassa la guardia sull'inflazione (per ora sotto il 2%) ma addirittura annuncia che manterrà i tassi di interesse vicino allo zero finchè la disoccupazione viaggerà oltre il 6,5%. La crescita, dunque, diventa la priorità delle priorità, costi quel che costi e per tutto il tempo necessario a carburarla quanto basta.
L'eurozona è in recessione (-0,4%), i suoi disoccupati superano l'11% ma il suo deficit medio è già sceso al 3,3% contro l'8,5% americano, il suo debito sta al 93% contro il 140%, i suoi conti correnti sono attivi (1,1% del Pil) il passivo Usa al 3,2% ma al vertice Ue che si terrà oggi e domani a Bruxelles nessuno ha previsto di parlare non di stimoli ma neanche di crescita economica.
L'attenzione resta tutta e solo concentrata su risanamento dei conti pubblici e rilancio della competitività attraverso tagli e riforme strutturali perché soltanto così, recita la dottrina tedesca che informa i Trattati Ue e governa la Bce e l'area euro, si potrà un giorno arrivare a una crescita sana e sostenibile. Sempre che nel frattempo il malato, magari anche risanato, non finisca per tirare l'ultimo respiro.
Non importa se Maastricht è stata concepita vent'anni fa. Non importa se nel frattempo l'economia è diventata globale e sta stravolgendo parametri di giudizio e rapporti di forza consolidati. Non importa neanche se, come annunciano le ultime previsioni Usa del Global Trend 2030, in un momento imprecisato ma certo nei prossimi 10-18 anni la Cina sorpasserà gli Stati Uniti dopo l'Europa. Se gli uni e l'altra non faranno niente per reagire, per contrastarne la corsa.
Gli Stati Uniti ci provano a cambiare rotta, si vedrà con quale fortuna. L'Europa tedesca no. Non ancora? Certo, non per i prossimi nove mesi, cioè non fino a quando si terranno le elezioni che Angela Merkel intende assolutamente vincere. Dunque fino al settembre 2013 si muoverà ben poco. A meno che qualche incidente imprevisto non turbi la calma sopravvenuta sui mercati ipnotizzati dalla Bce.
Per questo un vertice che doveva essere storico, come si proclamava a fine giugno con la Merkel tra le voci più stentoree a invocare radicali riforme, finirà con risultati quasi nulli. Il cantiere delle 4 unioni, di bilancio, economica, bancaria e politica, che doveva archiviare la crisi dell'euro colmandone le lacune di governance e farne in prospettiva una moneta "normale", è fermo prima di cominciare.
Nessuno scalpita più per aprirlo né parla di riforme dei Trattati. Al contrario. La nuova parola d'ordine è procedere con i piedi di piombo. Così sul tavolo del vertice di oggi e domani ci sarà una versione molto edulcorata di quel piano, un calendario diluito su tempi sempre più lunghi e contenuti sempre più vaghi.
Niente eurobond né mutualizzazione anche parziale dei debiti sovrani ma questo già si sapeva. Niente bilancio anti-shock asimmetrici per l'eurozona. E nemmeno ammortizzatori per attenuare l'impatto sociale delle riforme e della disoccupazione come auspicherebbe la Francia. Niente fondo di risoluzione bancaria né garanzia europea sui depositi, al massimo qualche impegno generico in calendario per provare a fissare standard comuni. Niente più supercommissario Ue con poteri di veto sui bilanci nazionali. Sparita persino la scaletta in tre tappe per le riforme.
Non è più tempo di furori rigoristi e riformisti. L'Europa non va in letargo ma temporeggia, riflette sui pro e i contro di riforme complesse e costose che, per inseguire una maggiore integrazione, potrebbero anche sfociare nella disintegrazione.
I segnali sono evidenti a Nord-Est: la fronda britannica non è nuova ma sempre più macroscopica, il "separatismo" scandinavo, soprattutto svedese, morde il freno e anche tra gli ultimi arrivati orientali si moltiplicano dubbi e distinguo.
Così l'accordo sulla vigilanza bancaria unica, quando ci sarà, sarà ridotto al minimo nei contenuti, così la ricapitalizzazione diretta della banche da parte del fondo Esm resterà ancora per mesi sulla carta. Così gli stimoli europei alla crescita dovranno attendere, anche perché sul bilancio poliennale Ue, già pesantemente tagliato, cadrà di nuovo la mannaia. Così le riforme per ora produrranno forse soltanto una nuova stretta: i contratti vincolanti, tra i singoli paesi e le istituzioni Ue, sull'attuazione delle riforme strutturali.
Così l'Europa in recessione resta a guardare gli Stati Uniti che provano a tornare a correre per inseguire i cinesi. Perché sanno che l'economia globale non fa sconti a nessuno.
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