Quali sono le tendenze di fondo, al di la delle statistiche? In primo luogo, nella intera struttura produttiva mondiale, continua la eliminazione di posti di lavoro, solo in parte compensati dallo spostamento delle attività nei paesi dove i salari sono molto bassi e le tutele sindacali inesistenti. Anche le analisi che ipotizzano un ritorno ai paesi di origine di alcune delocalizzazioni del passato sembrano delle interpretazioni forzate del giornalismo meno qualificato, in quanto si è in presenza al momento solo di casi isolati e non di un vero e proprio cambiamento di strategia. In secondo luogo, sono in aumento la disoccupazione, in particolare la componente protratta per lunghi anni, e tutte le forme di precariato, sia quelle tipiche dei paesi industrializzati che quelle in fase di ulteriore aggravamento nei paesi del Sud, compresi quelli di nuovissima industrializzazione. Infine, le speranze di una ripresa nei paesi occidentali continuano ad essere deluse o posposte nel tempo, mentre è sempre più evidente (anche se poche istituzioni hanno il coraggio di parlarne) che in ogni caso questa crisi economica così prolungata lascia intravedere al massimo un riavvio delle produzioni non accompagnate da un riassorbimento della occupazione precedente.
Abbiamo quindi di fronte una prospettiva pluriennale caratterizzata dal permanere di una disoccupazione molto consistente e da leve giovanili con scarsissime opportunità di collocazione – con tutti i costi umani e sociali che ciò comporta – e se questa analisi fosse condivisa sarebbe ormai ineludibile e urgente trovare delle linee di azione che abbiano come principio ispiratore la ricerca di modalità di impegno e di impiego per persone di ogni età in cerca di attività utili per le comunità di appartenenza e soddisfacenti sul piano delle esigenze personali. In altre parole, in questa fase storica, occorre introdurre nuove forme di ragionamento e soluzioni più creative, tanto più urgenti quanto più rapidamente incalzano i radicali mutamenti climatici e l’emergere di danni ambientali con conseguenze sempre più gravi per gli esseri umani e la vita sul pianeta. Ma sembra difficile che spunti molto innovativi possano provenire da Stati sempre più deboli e da forze politiche tradizionali ormai ossificate e percorse da continue divisioni che ne rendono insignificanti o incerte le strategie di azione nei campi di interesse collettivo.
Un ruolo per il “movimento”?
Non si può certo negare l’esistenza, in Italia come in molti altri paesi, di una molteplicità di iniziative realizzate da comitati e gruppi di base, ma sempre più spesso anche da piccoli gruppi di persone attive nelle loro comunità, dirette ad affrontare problemi cruciali per le società attuali – dalla difesa dell’ambiente alla sicurezza e alla qualità della sanità e dell’alimentazione, anche se con risultanti non eclatanti date le piccole dimensioni degli interventi progettati. Chi conosce in profondità questo mondo, che coinvolge diecine di migliaia di persone, è sempre colpito dal realismo delle loro analisi e previsioni relative a fenomeni che mezzi di comunicazione e caste politiche si sforzano di occultare; i loro obiettivi e le soluzioni perseguite non trascurano alcun aspetto della complessa situazione che stravolge gli equilibri del pianeta e le relazioni tra i popoli. Inoltre si riscontra il continuo incremento dei flussi di informazioni, corrette e aggiornate, tra gli analoghi movimenti in azione in tanti paesi, perfino in quelli dove le libertà civili non sono sempre rispettate.
Questa fascia di popolazione potrebbe costituire la protagonista di un approccio completamente innovativo e finora mai sperimentato fino in fondo, diretto a ricostituire le logiche di fondo delle logiche che dovrebbero ispirare le attività del lavoro degli esseri umani, sottraendole alle logiche del sistema economico dominante? Ovviamente questa ipotesi di lavoro non può certo supplire alle incapacità ormai accertate di produrre posti di lavoro con le modalità oggi possibili e non manca di risentire delle carenze finora tante volte emerse nello stesso movimento (frammentazione eccessiva, autoreferenzialità di molte delle organizzazioni della società civile, metodi di lavoro che spesso si rifanno acriticamente alle peggiori logiche esistenti nella sfera politica tradizionale, scarsa propensione al lavoro di rete, ecc.), però è una ipotesi che non si può certo scartare a priori e che forse sarà imposta tra poco tempo dall’ulteriore aggravamento della situazione planetaria.
Se si condivide l’ipotesi che dalle esperienze e dall’attivismo di base del movimento possa scaturire un programma di attività capace di rimescolare le carte della attuale situazione di stallo, si può provare a immaginare uno schema di azione che coinvolga un certo numero di realtà territoriali che, senza interrompere le attività in corso, decidano di voler coinvolgere ciascuna un numero ben più vasto di concittadini e faccia rapidamente diffondere una coscienza molto più informata e matura delle esigenze e dei fabbisogni locali lasciati in scopertura dalle istituzioni e dalle imprese.
La proposta che cerchiamo di delineare è in una fase del tutto embrionale e solo un notevole numero di prese in carico delle linee di lavoro previste e l’avvio di un intenso processo di scambio di esperienze tra organizzazioni e gruppi di azione che adottano le linee di ispirazione della metodologia proposta, permetteranno di pervenire a successive proposte maggiormente precisate e di continuare la sperimentazione in un numero crescente di aree di intervento. Si tratta quindi di una serie di ipotesi che una volta adottate in linea di massima, saranno trasformate sul campo e rilanciate su altre territori. Si immaginano quindi dei processi simili nell’ispirazione ma con contenuti non necessariamente identici, in modo da rispettare le caratteristiche delle diverse iniziative già esistenti e insieme di avviare fasi successive di accrescimento e di precisazione degli interventi e delle metodologie di lavoro correlate, frutto in gran parte di creatività e immaginazione espresse in territori spesso molto diversi tra loro quanto a caratteristiche delle popolazioni e gravità dei problemi da affrontare.
I campi di intervento
Se si svolge uno sguardo attento al territorio del nostro paese, si possono individuare almeno venti “settori”, di grande interesse culturale ed economico, quasi completamente trascurati dalle priorità dell’economia dominante, e che rappresentano dei patrimoni di alto valore esposti a tutti i danni dell’incuria, della mancanza di sorveglianza e manutenzione, spesso ignorati anche dalle guide turistiche più colte e raffinate, oppure costituiscono dei meccanismi di danno alla salute umane e alla varietà genetica animale e vegetale. L’elenco che qui riportiamo è del tutto provvisorio e non necessariamente completo, e potrebbe essere descritto in modo molto più approfondito, sia nei contenuti che nei confini, ma dovrebbe essere sufficiente per comprendere la natura e la portata della proposta che si sta avanzando. In ogni caso, sono stati raccolti alcuni documenti di fonti diverse e non necessariamente verificate, ma che forniscono ai gruppi interessati elementi iniziali per le loro analisi dei diversi settori presenti nei rispettivi territori.
Il recupero del patrimonio naturale e culturale
a) Aree di interesse archeologico e storico. Molti sono i siti di scavo ancora non completati e non recintati e sorvegliati; molte le aree più note e oggetto di incessanti flussi di visitatori che necessiterebbero di interventi di restauro, di manutenzione, di studio e di ricerca; gli scavi illegali e l’esportazione clandestina di opere d’arte sono continuamente denunciati senza che la situazione tenda migliorare; intere regioni mancano di circuiti di visita e di censimenti esaustivi dei giacimenti culturali e non riescono a valorizzare i numerosi luoghi di alto interesse per gli studi specialistici; la carenza di fondi è ormai endemica da molti anni.
b) Dissesto idrogeologico. L’intero territorio italiano è fortemente interessato da forme spesso estreme di instabilità e insicurezza, caratterizzate inoltre da eventi spesso drammatici come alluvioni e frane che colpiscono sempre più di frequente anche zone densamente abitate. Le cause sono note: costruzioni abusive in zone notoriamente a rischio, disboscamento e abbandono dei terreni montani, cementificazione dei corsi d’acqua, pratica mancanza di una attività di sorveglianza e prevenzione, scarsità assoluta di mezzi economici anche per gli interventi più urgenti, per citare solo le più importanti.
c) Aree sismiche. Una parte rilevante del territorio nazionale è esposta al rischio di movimenti tellurici, previsti dalle apposite carte e confermate dagli eventi drammatici che colpiscono periodicamente aree diverse, con vittime e distruzioni che devastano il patrimonio abitativo e artistico. Le misure e gli interventi volti a realizzare costruzioni antisismiche sono palesemente insufficienti: ancora oggi si denuncia la necessità di disporre di 24.000 scuole rispondenti a criteri antisismici!
d) Aree fortemente inquinate a causa di attività produttive che non prevedono alcun rispetto dell’ambiente e della salute. Il numero ufficiale di queste zone che producono malattie anche gravissime cambia continuamente, sia per la limitatezza delle analisi scientifiche relative, sia per modifiche di competenze e responsabilità: si va dalle oltre 300 indicate da organizzazioni ambientaliste nazionali, alle 150 del Ministero della Sanità, alle 44 delle più recenti ricerche del Progetto S.e.n.t.i.e.r.i, mentre periodicamente si accendono i conflitti per aree ben conosciute da tempo ma che improvvisamente ascendono agli onori delle cronache, come sta accadendo per il caso dell’Ilva di Taranto negli ultimi mesi.
e) Deforestazione. I danni arrecati al patrimonio forestale sono stati ingentissimi negli ultimi secoli e hanno assunto caratteri di massima accelerazione nei decenni più recenti e soprattutto si ripetono ogni estate in modo sicuramente criminale. Sia per salvaguardare il paesaggio che per contrastare l’inquinamento da anidride carbonica dovrebbe essere avviata una decisa politica di ricostituzione , riconoscendo e ampliando innanzitutto i boschi a proprietà collettiva della fascia prealpina e moltiplicando le aree verdi (parchi, orti, ecc.) all’interno e ai margini delle zone urbanizzate.
f) Le attività agricole continuano a subire profonde distorsioni dovute in larga misura al continuo diffusione delle tecnologie chimiche e alla nefasta influenza delle logiche commerciali, che introducono prodotti esteri di bassa qualità nei supermercati e riducono la convenienza alla vendita di prodotti nazionali (latte, olio frutta, ecc.). Occorre invertire queste tendenze attraverso il sostegno all’agricoltura biologica, eliminando con metodi radicali la presenza di organismi geneticamente modificati e adottando strategie di
protezione e valorizzazione delle varietà vegetali a rischio di sparizione ( creazione di banche dei semi presso tutte le Università agrarie, incentivi per la ricerca di piante originarie trascurate e per la loro riutilizzazione, ecc.)
g) Una parte crescente diabitati di piccole dimensioni, diventati di difficile accesso a seguito dell’adozione di piani di mobilità stradale e ferroviaria fortemente incentrati su assi di rilievo nazionale, e che pure sarebbero di estrema utilità in una prospettiva di riequilibrio dei rapporti città campagna, sono stati abbandonati o sostanzialmente emarginati. Occorre invertire questo meccanismo prima che il patrimonio abitativo già deteriorato scompaia definitivamente. Vi sono già numerosi esempi di recupero delle terre e degli abitati abbandonati (compreso miniere e cave non più sfruttate), di trasformazione in alberghi diffusi o in sedi di comunità di nuovo connesse alle attività agricole, ma occorre sostenere un processo di dimensioni molto maggiori.
h) Edilizia senza limiti. E’ ormai evidente che anche l’esistenza di un piano regolatore non basta per porre dei limiti alla speculazione sui terreni, mentre sarebbe necessario elaborare la prospettiva di una moratoria molto radicale sul consumo dei suoli per scopi non alimentari, dato il livello raggiunto dall’espansione delle aree urbanizzate, sempre più congestionate e meno vivibili. Se si adottasse una strategia di questo tipo, sarebbe invece possibile far utilizzare le abitazioni vuote, trasformare sotto controlli accurati le abitazioni ad uso abitazione abusive, orientare le espansioni urbane solo quando non riducono ulteriormente i terreni ad uso agricolo.
i) Riduzione e riutilizzo dei rifiuti. Gran parte dei rifiuti non viene ancora trasformata in prodotti utili per la vita quotidiana, mentre sussiste la tendenza a credere che la loro parziale eliminazione negli inceneritori costituisca il metodo più rapido e meno costoso per risolvere il problema., mentre comporta danni rilevanti alla salute e risponde solo a criteri di profitto.
La riduzione e il recupero dei rifiuti (diffusione della raccolta porta a porta, piani “rifiuti zero” da realizzare in tutte le città, grandi e medie, graduale eliminazione degli inceneritori, potenziamento dei Consorzi per il recupero delle “materie seconde”, ecc.) vanno invece perseguiti senza ulteriori perdite di tempo, mentre è a livello della riprogettazione degli oggetti e della riduzione del contenuto in termini di potenziali rifiuti che va affrontata in modo radicale la questione.
l) La conversione degli impianti industriali (riduzione emissioni inquinanti, risparmio
energetico, passaggio alla produzione di beni utili non dannosi per l’ambiente, ecc.), quindi niente “green economy” (che significa nuove occasioni di profitto tinte di verde ma riproducendo i ben noti meccanismi di danni illimitati al pianeta); introduzione delle ipotesi di riconversione ecologica negli oltre 200 casi di crisi aziendale all’esame del Ministero dell’Economia nel 2013; misure di sensibilizzazione al risparmio energetico per tutti i dipendenti e le loro famiglie.
m) Il risparmio energetico in ogni settore di attività e di consumo (produzione di strumenti di controllo, elaborazione soglie e normative finalizzate alla riduzione complessiva prevista dall’UE, incentivazione delle ricerche di nuove tecnologie a basso consumo energetico, ecc.)
n) Promozione e incentivazione di tutte le potenzialità delle energie rinnovabili (solare su tutti i tetti, sui parcheggi, colonnine con pannelli solari per ricaricare le auto elettriche, ecc.) non estensive (campi solari) e sostegno agli impianti sotto un mega. Deve invece continuare l’opposizione alle centrali a biomasse, a biogas e agli impianti biodigestori, in quanto sottraggono materiali preziosi ai suoli.
o) La modifica strutturale dei consumi familiari, alimentari e non (moltiplicazione campagne sul modello di “Cambieresti Venezia”, modifica alle etichettature, formazione di promotori per assistere le famiglie, ecc.) in senso ecologico
p) L’avvio di una edilizia ecologicamente corretta (diffondere le tecnologie per la casa passiva, moltiplicare le ricerche di materiali coibenti e filtranti poco costosi e ad alto rendimento, ecc.)
q) Riassetto, rilancio ed estensione dei Parchi, delle Oasi e delle zone protette marine e terrestri
r) Introduzione di misure obbligatorie per rendere l’acqua realmente un bene comune, nel massimo rispetto dei risultati referendari
s) Esplorare tutte le concrete prospettive di individuazione e rivendicazione di beni comuni, ampiamente riconosciuti sul territorio nazionale
I diciassette settori sono stati qui indicati solo per contribuire alla formulazione delle richieste provenienti dalle popolazioni relativamente ai rispettivi territori e debbono essere fortemente rimaneggiati in base a progetti ed esigenze ben chiare a livello locale.
In linea più generale, è poi da notare che la graduale eliminazione degli impianti nucleari libera ricercatori molto qualificati per rispondere alle esigenze dell’ambiente (loro riqualificazione, nuove facoltà e politecnici, esigenze urgenti di ricerca sui danni ambientali e sui prodotti alternativi, necessità di riprogettazione di singoli oggetti per rispondere alle esigenze di risparmio energetico e di acqua, ecc.), ma questo passaggio non può dipendere da scelte di spesa pubblica, fortemente condizionate dalla crisi, e può soltanto rispondere a decise e prolungate pressioni dal basso.
E’ evidente che la quantità di lavoro che ciascuno di questi settori richiederebbe è estremamente rilevante e permetterebbe di salvaguardare e valorizzare dei patrimoni naturali e artistici unici al mondo, ma è altrettanto chiaro (anche prima della crisi nella quale siamo immersi) che le priorità governative sono ancora ben altre. Inoltre, è difficile prevedere nei prossimi tre – cinque anni un sostanziale aumento delle disponibilità pubbliche di fondi che non siano destinati alle strategie di contenimento del debito e agli interventi che ancora vengono considerati utili per la stimolazione della crescita tradizionale.
E’ possibile allora modificare le logiche dominanti e introdurre delle varianti di natura sociale che facciano emergere le esigenze reali e gli interessi locali alla valorizzazione, specie in termini di nuovi lavori potenziali? Forse si potrebbe puntare a fattori poco noti o molto trascurati, quali il rapporto di interesse tra una popolazione e un assetto corretto ed equilibrato del suo territorio, oppure il desiderio di preservare i beni locali di interesse collettivo, o ancora la aspirazione a svolgere una attività, magari poco retribuita, ma che presenti una elevata soddisfazione delle proprie emozioni.
Alberto Castagnola, economista e obiettore di crescita (il suo ultimo libro è «La fine del liberismo», Carta), è animatore di reti dell’economia solidale. Negli ultimi mesi ha promosso con altri/e la nascita del laboratorio urbano romano Reset (Riconversione per un’economia solidale ecologica e territoriale). I suoi articoli pubblicati su Comune sono QUI.
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