Nel mondo del lavoro di oggi è così: o ti adatti o muori. E ti adatti. O meglio, subisci. Subisci perché ti senti impotente, sconfitto, solo. Sai che se ti ribelli, resti fuori. Ti rimpiazzano subito. Allora resti in fila, per non perdere il posto in scialuppa.
Rita è un medico del 118. Ha quarantatre anni ed è precaria. Suo marito insegna. Precario pure lui, si capisce. Sandra lavora al call center: contratto a progetto. Però ha i turni, le ore, le firme. Il badge da timbrare no, che se arriva un controllo sono impicci. Pure Luigi lavorava al call center, poi hanno fatto dei tagli, la crisi, e adesso fa il cameriere nei weekend. A nero, si capisce. Cinquanta euro a sera e ne spende quindici solo per andare e tornare dal ristorante. Carla fa la musicista. E lì c’è davvero da piangere. Settanta euro a sera, e ti porti gli strumenti. Anche lei, nei fine settimana, ché mica si suona tutte le sere! Claudio invece fa l’agente immobiliare. Gli hanno fatto aprire una partita iva e in realtà è un dipendente. Lavora dieci ore al giorno, compreso il sabato e mezza giornata di domenica. E neanche un rimborso spese, tutto a provvigioni. A me, qualche tempo fa, arrivò una proposta da un giornale locale: cinque euro a pezzo. Che se chiami la donna delle pulizie per lavare i vetri mentre tu scrivi l’articolo, ci rimetti.
Si ritrovano tutti qua, fra poltrone e divani, e quando si tocca l’argomento lavoro, vengono i brividi. Non solo per i pochi soldi, spesso una miseria, ma per quell’aria di rassegnazione, di avvilimento, di resa. Persone brillanti, intelligenti, capaci. Rita fa il medico per passione, come quei preti che recitano il padrenostro credendoci. Ci crede sul serio, a lavorare sulle ambulanze servono nervi d’acciaio e un cuore enorme. Eppure ogni tre mesi, ogni sei mesi, finisce il contratto e deve ricominciare da capo.
Certo, il dramma vero è per quelli che chiamano “artisti”: musicisti, ma anche scrittori, giornalisti, attori, comici, cabarettisti. C’è questa strana forma di adescamento: tu vieni nel mio locale, nella mia discoteca, nel mio comune, ti porti magari gli strumenti (e se suoni il clarino va ancora bene, ma se suoni la batteria o l’organo hammond è una tragedia) e suoni gratis, per farti pubblicità. O vieni nel mio giornale e io ti pubblico: gratis, perché in cambio hai visibilità. E se non lo fai, c’è chi lo fa al posto tuo. Un ragazzino con una tastierina con le basi midi a cui danno magari trenta euro, tanto il palato fino non ce l’ha più nessuno e difficilmente si trova chi è in grado di distinguere il musicista improvvisato da Keith Emerson.
Così, o ti adatti o muori. E ti adatti. O meglio, subisci. Subisci perché ti senti impotente, sconfitto, solo. Sai che se ti ribelli, resti fuori. Ti rimpiazzano subito: con qualcuno meno bravo di te, magari, meno capace di te, magari, meno onesto, dotato, brillante. E che importanza ha? Si devono adattare anche gli “utenti”, che siano lettori, melomani, ammalati, studenti, o anche solo gente a cui non funziona l’adsl e chiama il servizio tecnico e si sente rispondere da Igor o da Vladimir dalla Papuasia nord. E si sono adattati anche loro. Impotenti, sconfitti, rassegnati. Si sono adattati al medico incompetente, all’insegnante zotico, al sedicente musicista sprovvisto di una pur vaga parvenza di talento, allo scrittore analfabeta che si sente Tolstoj. Neppure loro un impeto di ribellione, un sussulto di rivolta, un accenno di insurrezione. Soli.
Ecco, la cosa peggiore è questa: il senso di immensa solitudine, l’impotenza appresa di chi ha capito che ribellarsi non serve, lottare non serve, opporsi non serve. Trent’anni fa i nostri padri non sentivano questa solitudine. Si sentivano uniti, accomunati dalle medesime lotte. Scioperavano insieme. Bloccavano insieme le aziende, le strade, insieme occupavano i tetti. E anche allora c’era chi era disposto a lavorare al posto loro,perché tenevano famiglia. Crumiri, li chiamavano. Adesso no, non è più così. Il clima è quello del Titanic subito dopo l’impatto con l’iceberg: tutti in cerca di un posto sulla scialuppa, disposti a passare sul cadavere della propria madre pur di mettersi in salvo. O così credono, ché il mare è irto di scogli a fior d’onda.
Eppure, se si fermassero tutti, ma proprio tutti i lavoratori precari, sarebbe il caos. Basterebbero tre giorni ad ottenere quello che i nostri padri hanno ottenuto in anni di lotta. Paralizzerebbero tutto.
Ma ciascuno di loro resta in fila per il proprio posto in scialuppa. Pronto a salvarsi fino al prossimo iceberg, intruppato, piegato, rassegnato. E dannatamente solo.
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