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martedì 30 luglio 2013

AGENTE CIA INGUAIA TUTTI, DA NAPOLITANO AD OBAMA


Sabrina De Sousa denuncia i responsabili del rapimento di Abu Omar e fa rivelazioni rilevanti sul caso, che potrebbero spingere la magistratura italiana, ma anche gli Stati Uniti, a nuove iniziative.



L’ULTIMA WHISTLEBLOWER - La donna è uno dei 23 americani condannati dal tribunale di Milano per il rapimento di Abu Omar. Dalle sue rivelazioni emerge che 19 di loro “non esistono” in quanto i giudici li avrebbero identificati con i nomi falsi che usavano come copertura. I quattro che rimangono sono, oltre a lei, il colonnello Joseph Romano, il comandante della base di Aviano che è stato perdonato dal Presidente della Repubblica Napolitano in aprile, Jeffrey Castelli e Robert Seldon Lady, fermato di recente a Panama perché inseguito da un mandato di cattura internazionale e subito liberato dalle autorità panamensi e lei, che non ci sta a fare da capro espiatorio e lo ha spiegato chiaramente a Jonathan S. Landay di McClatchy, rivelando la storia dell’intera vicenda, dalla sua genesi ai giorni nostri e, soprattutto, facendo i nomi dei responsabili. Secondo De Sousa il perdono di Napolitano a Romano è seguito a pressioni statunitensi, alle quali il nostro si è evidentemente piegato, pressioni che però Washington non ha ritenuto il caso di esercitare per gli altri coinvolti, perché nel loro caso avrebbe significato ammettere la responsabilità del delitto, sempre negato dalle amministrazioni americane.

RIVELAZIONI PESANTI - L’aspetto fondamentale delle rivelazioni di De Sousa è l’importanza che hanno sul versante americano, visto che l’amministrazione ha sempre negato ufficialmente ogni coinvolgimento nell’operazione, che ora invece viene denunciata proprio dalla signora, che fino al 2009 ha fatto parte del National Clandestine Service. Anche questa una rivelazione, visto che fino ad oggi per tutti era solo parte del corpo diplomatico, ma quanto dichiarato dalla signora potrebbe avere effetti rilevanti anche nel nostro paese, visto che conferma il coinvolgimento dei vertici nostri servizi, del governo e la loro piena coscienza dell’illegalità dell’azione.

L’AGENTE SCARICATA E DELUSA - A De Sousa il governo americano ha impedito di difendersi nel processo, sia prendendo contatto con il difensore assegnatole d’ufficio che attraverso un proprio legale di fiducia, ma a differenza di altri coinvolti non ha ricevuto l’immunità, che copre invece gli altri protagonisti della vicenda. La donna, che ha scavato negli archivi prima di dimettersi dall’agenzia nel 2009, spiega che Condoleeza Rice aveva sì proposto la concessione dell’immunità anche a lei, ma che la CIA espresse parere contrario perché sarebbe stato come ammettere che la rendition c’era stata davvero. Paradossalmente quindi, De Sousa potrebbe essere imputata negli Stati Uniti o arrestata ed estradata in Italia in altri paesi, per un’azione che anche secondo le leggi americane è un reato gravissimo. Si tratta di un pericolo più potenziale che reale, al quale la donna comunque si è esposta con queste rivelazioni. Condoleeza Rice dai suoi racconti emerge anche come uno dei pochi funzionari ad essersi opposta al piano che ha portato al sequestro di Abu Omar il 17 febbraio 2003, o almeno ad essersi posta dei dubbi.

DELUSA DA OBAMA - La donna, su consiglio del suo avvocato, aveva atteso fino all’elezione di Obama nel 2008 per protestare, ma nel 2009, dopo che le sue iniziative le avevano procurato solo un’evidente ostilità ha deciso di dimettersi. Niente “hope” e nessun “change”, conferma la signora. De Sousa accusa esplicitamente gli “Italian leaders”, non solo Berlusconi, di aver colluso con gli Stati Uniti per proteggere Bush, Rice, Tenet e i vertici delle CIA, evitando che fossero perseguiti e persino evitando di riconoscere pubblicamente il rapimento. Una decisione che ha lasciato lei e pochi altri nello scomodo ruolo di capri espiatori.

CASTELLI IL CARRIERISTA - Dal suo racconto emerge chiaramente come il primo motore dell’operazione sia stato Jeffrey Castelli, capo della stazione CIA di Roma, ansioso di rispondere alle pressioni da Langley avrebbe di fatto macchinato per riuscire a portare a termine una rendition pur che fosse per esclusivo interesse personale, per fare carriera. Fu Castelli a rassicurare Washington che in caso fosse andata male gli americani sarebbero solo stati espulsi dall’Italia e “il SISMI libererà tutti alle accuse“. Non è la sola bugia, De Sousa ha scavato nei cable della CIA; che non ha copiato o prelevato, ci tiene a dirlo a scanso d’equivoci; e ha scoperto come Castelli ha risolto il problema per il quale Abu Omar non era ricercato da nessuno, nemmeno in Egitto. De Sousa dice di aver rintracciato la lettera con la quale Castelli chiedeva al potente capo dei servizi di Mubarak, Omar Suleiman di spiccare un mandato d’arresto contro il predicatore. Ancora una volta paradossalmente, ma non troppo, quando poi Abu Omar è finito in Egitto la stazione CIA del Cairo ha chiesto a Castelli le prove per incastrare Abu Omar, che servivano agli investigatori egiziani che dall’uomo non riuscivano a tirar fuori niente nonostante l’avessero sottoposto a tortura. La risposta di Castelli a suo modo è un capolavoro: “Pensavo aveste queste informazioni. Visto che avete emesso il mandato di cattura”. Non meno rivelatrice la risposta della CIA dall’Egitto, che a Castelli ha ribadito che le autorità egiziane “Hanno emesso il mandato solo perché tu volevi un mandato d’arresto“

SE LO ASPETTAVA - De Sousa ha spiegato di aver scavato negli archivi della CIA perché era evidente che lei e pochi altri avrebbero pagato e perché voleva portare la questione al Congresso. Purtroppo il Congresso si è rifiutato di riconoscerla come una legittima “whistlebower” che denunciava un crimine governativo commesso alle spalle dello stesso parlamento, che le rendition non le ha mai autorizzate, e quindi non le sono rimaste che le dimissione dall’agenzia. De Sousa non lo dice, ma a spingerla a vuotare il sacco pubblicamente dev’essere stato proprio il fermo di Lady a Panama, un incidente che se fosse capitato a lei probabilmente le sarebbe costato la galera.

L’INTERPRETE DELLA CIA - Proprio a lei che non ha preso parte al rapimento, se non come interprete ancora nel 2002, nelle fasi preparatorie dell’azione. Per inciso, il bisogno di un’interprete segnala incidentalmente che i vertici dei nostri servizi non fossero in grado di comprendere l’inglese, un’altra nota dolente. De Sousa spiega quindi che che in quella fase il SISMI e diversi ufficiali americani, tra i quali lo stesso Lady, respinsero l’idea del rapimento, sia per i gravi rischi ai quali esponeva i coinvolti, sia perché Abu Omar era controllato da anni dalla Digos e non rappresentava alcuna minaccia. Tuttavia la stazione CIA di Roma continuò a far pressione su Lady e sul Sismi e alla fine in qualche modo ottenne il via libera da Washington.

IL GIOCO DELLE TRE CARTE - Anche Pollari, all’epoca capo del SISMI, fu pressato da Castelli durante il 2002 fino a che non cambiò opinione, che all’inizio era di assoluta contrarietà proprio per i rischi che si sarebbero corsi in caso d’intervento della magistratura. Ed è a questo punto che i superiori di Castelli a Langley gli scrivono che il SISMI e Berlusconi dovevano acconsentire, perché senza la loro autorizzazione non si poteva andare a chiedere quella di Rice e Bush. Castelli risolve allora la cosa scrivendo: “Ho parlato con Pollari mi ha detto che non metterà niente per iscritto. Ma, tra un occhiolino e un ammiccamento mi ha fornito una specie d’approvazione tacita. Non metteranno niente per iscritto“.

LE FASI DELL’AUTORIZZAZIONE - Nonostante questa vaghezza e nonostante il fatto che la rendition di Abu Omar non rientrasse nei casi ammessi perché l’uomo non rappresentava alcuna “minaccia imminente” per gli Stati Uniti o per gli statunitensi, i vertici della CIA acconsentirono a presentare la richiesta d’autorizzazione a Rice, che all’epoca era consigliere per la sicurezza nazionale. E che in un cable del 2002, sempre secondo De Sousa, avrebbe espresso la preoccupazione sul fatto che il personale della CIA avrebbe rischiato di finire in prigione se arrestato.

L’OK DELL’AMMINISTRAZIONE - Tuttavia, con il supporto di Tenet, Rice acconsentì a presentare il caso a Bush e a raccomandare l’approvazione per il rapimento di Abu Omar. Secondo De Sousa tra i responsabili di quest’orribile pateracchio ci sono anche Tyler Drumheller, all’epoca direttore delle operazioni europee della CIA, James Pavitt, direttore delle operazioni; il suo vice Stephen Kappes; Jose Rodriguez, allora capo del Counterterrorism Center della CIA e John Rizzo, General Counsel della stessa agenzia. Oltre ovviamente a Bush.

PARTE L’OPERAZIONE - Con quella autorizzazione Castelli poi, ma questo De Sousa non lo dice, si sarà presentato alle autorità italiane ottenendone la collaborazione, non è chiaro con chi e come abbia interagito per superare le obiezioni di Pollari, ma la storia conferma che riuscì nel suo intento. L’operazione fu portata a termine in maniera dilettantesca, tanto che i magistrati ebbero gioco facile a tracciare tutti i coinvolti attraverso cellulari e carte di credito, Abu Omar finì in Egitto dove dopo le torture fu rilasciato libero da ogni accusa. Il tribunale italiano ha condannato tutti i coinvolti a pene pesanti e disposto un risarcimento milionario per Abu Omar.

L’INIZIO DI UN INCUBO - Anche De Sousa è stata condannata e dopo la condanna la CIA le ha solo vietato di viaggiare all’estero, un ordine al quale dice di aver disobbedito solo una volta per correre al capezzale del padre morente in India. Ogni sua richiesta e denuncia è stata ignorata dalla Cia, come dal Congresso, da Condoleeza Rice, Hillary Clinton e persino del procuratore generale Eric Holder al uale si era rivolta per denunciare il caso. La donna è riuscita a fare notizia solo nel 2009, quando ha citato in giudizio il Dipartimento di Stato e Clinton chiedendo l’immunità diplomatica. Causa persa, anche se il giudice Beryl A. Howell che l’ha trattata ha riconosciuto nella sentenza che il trattamento di De Sousa poteva diventare un messaggio “potenzialmente demoralizzante” per gli ufficiali statunitensi che operano all’estero. La donna in seguito si è così trovata senza lavoro e senza possibilità di godere delle prassi che permettono agli ex agenti di trovare ottimi impieghi nel settore privato, impossibilitata a viaggiare all’estero per visitare la madre in India e impedita di chiamarla negli Stati Uniti. In più le è anche stata negata la pensione governativa e, ovviamente, per lei solo porte chiuse in tutte le aziende che abbiano minimamente a che fare con la CIA.

POCO DA PERDERE - La donna è cosciente d’esporsi ad ulteriori rischi: “Avete visto cosa succede ultimamente a chiunque abbia cercatori rivelare qualunque cosa“, ma nonostante questo ha deciso di uscire allo scoperto per rendere giustizia alle tante vite rovinate da quell’azione sconsiderata, sperando che la sua storia serva da avvertimento agli agenti che operano all’estero, che qualora finiscano imputati per aver aver fatto il loro lavoro dalla giustizia di altri paesi: “non hanno alcuna protezione. Zero“.

LE PROVE CI SONO - Le rivelazioni di De Sousa, clamorose nella parte nella quale espongono le azioni di Castelli e le responsabilità dell’amministrazione nell’autorizzare il rapimento, secondo la donna sono facilmente tracciabili e dimostrabili nelle stesse carte alle quali ha avuto accesso nelle ricerche che ha effettuato nel tentativo di ricostruire quello che era successo e quindi il Congresso e la giustizia americana non dovrebbero avere difficoltà ad agire e punire i responsabili di questo disastro, se solo volessero.

UNA TEGOLA PER POLLARI E MANCINI - Sul versante italiano le rivelazioni di De Sousa potrebbero aggravare la posizione di Nicolò Pollari e e Marco Mancini, per i quali i PM hanno chiesto rispettivamente a 12 e 9 anni di carcere, ma per i quali nel 2010 , la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato il non luogo a procedere per via del Segreto di Stato. Il 19 Settembre 2012 però la Suprema Corte Italiana annulla con rinvio la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dai giudici d’appello nei loro confronti, disponendo quindi un nuovo giudizio di secondo grado per gli ex vertici del Sismi al fine di rivalutare le prove non coperte da segreto di stato. Il 12 febbraio 2013 la Corte d’Appello condanna Pollari a 10 anni e Mancini a 9 anni di reclusione. E adesso, a chi tocca?

Pubblicato in Giornalettismo