Una vita in America Latina per trovare le vie delBuen vivir e dell’alternativa al modello di sviluppo dominante. Economista, giornalista ed ora attivista dell’associazione Libera, Giuseppe De Marzo ha appena scritto "Anatomia di una rivoluzione" (Castelvecchi, 237 pp). Un libro sulla giustizia ambientale ma anche sul lavoro: “Diseguaglianze e insostenibilità ecologica - spiega - sono conseguenze di politiche economiche sbagliate. Se vogliamo rispondere a queste emergenze dobbiamo costruire una relazione che metta insieme due grandi obiettivi che garantiscono la vita e la prosperità al genere umano: giustizia sociale e sostenibilità ecologica”.
Lei immagina un nuovo paradigma per uscire dall’attuale crisi globale dove la chiave è appunto nella relazione tra giustizia e sostenibilità. Ci può spiegare meglio il suo concetto di “Giustizia ambientale”?
Diverse agenzie ONU hanno scientificamente dimostrato come a partire dal 1992 vi sia una relazione tra l’aumento delle diseguaglianze e la distruzione ambientale, conseguenza di un modello di sviluppo che eccede i limiti della Terra e le capacità di autorigenerazione dei cicli naturali. La governance economica distrugge più ricchezza di quanta ne crei. Da questo primo dato deduciamo come la giustizia distributiva dipenda direttamente dalla capacità di accesso alle risorse. “Giustizia ambientale significa equa distribuzione dei vantaggi e delle opportunità ambientali. È l’obiettivo di qualsiasi comunità, consentendo alle persone di realizzare il loro massimo potenziale. Questa strada costringe le forze produttive a riconvertirsi ecologicamente per assicurare giustizia distributiva. Risponderemmo così alla domanda di lavoro, salute pubblica, difesa dei beni comuni e partecipazione alle scelte che la crisi della democrazia ha ampiamente evidenziato.
Ma che relazione esiste tra diritti della natura, diritti umani e sostenibilità?
Abbiamo compreso come equità sociale e giustizia distributiva nell’accesso alle risorse naturali ci consentono di arrivare ad una società sostenibile. Ciò significa che dobbiamo organizzare la società ed il modello economico in modo da garantire l’integrità dei processi naturali ed il corretto metabolismo sociale della biosfera. Diritti umani e diritti della natura sono strettamente collegati. Senza i servizi che la natura ci offre, dal ciclo delle acque, a quello del clima, dell’azoto e così via, l’essere umano non sarebbe in grado di garantire i diritti umani. Oggi la crisi globale dei diritti umani è conseguenza diretta dell’incapacità del modello economico di garantire l’accesso alle risorse a tutti e tutte. Non possiamo continuare a distruggere quello che garantisce la base di riproduzione materiale per gli esseri umani. È un suicidio etico e politico.
Che intende quando parla di “razzismo ambientale” a cui è sottoposta gran parte dell’umanità?
Ci riferiamo alla pratica che consiste nello spostare i costi, i rischi e le riduzioni di libertà sulle comunità più povere o che non accedono ad un livello sufficiente di informazione e partecipazione, sui lavoratori a basso reddito o che vivono il ricatto economico, sui migranti e sui soggetti più deboli. Se utilizziamo questa “lente” ci accorgiamo di come una gran parte dell’umanità sia vittima di razzismo ambientale. Questo modello economico lo aumenta istituzionalizzando forme di discriminazione. Cosa sono le bonifiche non fatte o ritardate, la riduzione delle precauzioni sul lavoro, l’esposizione di esseri umani a pesticidi e sostanze tossiche, gli investimenti in attività produttive ed in tecnologie insicure come gli inceneritori o le centrali atomiche? Forme odiose di razzismo istituzionalizzato che sfruttano la vulnerabilità politica, culturale ed economica di individui, comunità e popoli.
Perché nel libro critica duramente sia il movimento ambientalista che la cosiddetta green economy tanto da considerare lo sviluppo sostenibile “come esclusivamente terreno di cattura cognitiva del modello liberista”? Fa sua la teoria della decrescite felice del sociologo Latouche?
Spesso un certo ambientalismo del nord del mondo ha evitato di mettere al centro delle proprie analisi le questioni legate all’equità sociale ed alla giustizia sociale. Il limite sta nel non comprendere come le questioni di giustizia siano legate a quelle della sostenibilità ecologica. I movimenti per la giustizia ambientale vivendo sulla loro pelle le conseguenze di politiche insostenibili sono stati invece capaci di ripensare la relazione con l’ambiente introducendo nelle loro lotte questioni legate al razzismo, alla discriminazione economica, alla giustizia ed ai diritti. Quanto a Latouche, il suo contributo è sicuramente importante perché consente al modello occidentale di riflettere sull’insostenibilità dei propri modelli di consumo e sull’idea folle della crescita economica infinita a fronte di un pianete con risorse finite. Preferisco però parlare di “democratizzazione dello sviluppo” piuttosto che di decrescita felice.
In Italia a Taranto abbiamo assistito proprio al conflitto tutela della salute/diritto al lavoro: una dicotomia che sia i sindacati che la politica non sono riusciti a destreggiare. Lì - in tempi rapidi e realisticamente - come se ne esce?
Se decidessimo di stare dalla parte della giustizia ambientale e sociale dovremmo: ripubblicizzare l’IlVA per riconvertirla su produzioni sostenibili, bonificare completamente la città inquinata, garantire l’accesso alle cure ed i risarcimenti per le vittime, sequestrare al proprietario Riva i suoi beni per metterli a disposizione della città, garantire la continuità del reddito a tutti i lavoratori ILVA ed allo stesso tempo formarli per essere ricollocati su altri tipi di produzioni. Questo garantirebbe i diritti della comunità, dei lavoratori, delle forze produttive capaci di riconvertirsi e delle generazioni che verranno e dell’ambiente. Ripristineremmo quella fiducia smarrita nelle istituzioni. Diritto al lavoro ed alla salute devono essere una sola cosa, come garantisce la Costituzione. I soldi ci sono ma si utilizzano male e per attività a bassa intensità di lavoro ed altamente inquinanti.
Un punto da cui ripartire per costruire un’alternativa di società sono per Lei i movimenti per la giustizia ambientale. Quali politiche sperimentano? E quali sono le esperienze più interessanti?
Questi movimenti lavorano sulla relazione tra giustizia e sviluppo, costruendo strumenti pro-attivi in grado di invertire la rotta della crisi, generando allo stesso tempo una visione condivisa. Ad un modello che erode partecipazione rispondono con forme di democrazia partecipativa e comunitaria. Ad un sistema culturale che tende all’omologazione rispondono mettendo a valore la diversità, recuperando saperi ancestrali e riscattando l’educazione popolare. Partendo da specificità locali intrecciano questioni apparentemente separate per arrivare ad una visione d’insieme capace di agire anche sul piano globale. Tra le esperienze che per prime hanno lavorato per far emergere un nuovo punto di vista generale ispirato al pluralismo e all’inclusività, sicuramente un ruolo importante l’hanno svolto i movimenti indigeni dell’America Latina che promuovono modelli socioeconomici fondati sul “buon vivere”, Via Campesina che con 400 milioni di contadini lavora in tutto il mondo per la sovranità alimentare e la difesa dei territori, i movimenti per la difesa dei beni comuni, come i comitati per l’acqua pubblica nel nostro paese, i movimenti di donne e le comunità rurali dell’India impegnati sulla giustizia sociale e climatica, le organizzazioni sociali che lavorano per ridefinire il diritto internazionale e combattere le nuove mafie. C’è tanto la fuori che può aiutarci a superare la crisi ed allo stesso tempo a costruire un punto di vista d’insieme nuovo. Basta volerlo guardare ed ascoltare.
di Giacomo Russo Spena
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