«Siamo affetti da una nuova malattia di cui alcuni lettori non hanno forse ancora letto il nome, ma di cui sentiranno molto parlare negli anni a venire e cioè la disoccupazione tecnologica. Ciò significa una disoccupazione causata dalla scoperta di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità di tenerne il passo trovando altri utilizzi per la manodopera in esubero». La frase è di John Maynard Keynes e risale al 1930, ma si presta benissimo a descrivere quanto, secondo molti studiosi, sta accadendo ai nostri giorni, e in maniera assai più incisiva di quanto previsto dal celebre economista.
Ai tempi di Keynes i computer erano ancora di là da venire (i primi modelli sarebbero stati progettati proprio negli anni ’30) e la “legge di Moore”, secondo cui la capacità di calcolo dei processori raddoppia all’incirca ogni 18 mesi, sarebbe apparsa a chiunque la fantasia di uno scienziato delirante, che confondeva desiderata e possibilità concrete. E invece la profezia di Moore, fino ad oggi, si è puntualmente realizzata; i computer sono diventati sempre più potenti e il progresso tecnologico negli ultimi decenni ha superato ogni previsione, ristrutturando, grazie al digitale e a Internet, intere industrie e travolgendo però nel cammino intere categorie di lavoratori.
Prima è toccato a quelli impegnati nelle mansioni più semplici e ripetitive: dai casellanti delle autostrade ai cassieri delle banche e dei supermercati il cui numero è stato drasticamente ridotto dagli sportelli automatici. Poi, se i miglioramenti nel campo dell’intelligenza artificiale procederanno al ritmo attuale, toccherà ai lavoratori un po’ più qualificati.
Tassisti e guidatori di camion in primis, se l’auto che si guida da sola di Google – che entro cinque anni potrebbe entrare sul mercato – manterrà le promesse di affidabilità e precisione che ha mostrato nei test su strada. A seguire potrebbero entrare in sofferenza i dottori di base, man mano che i cervelloni elettronici diventeranno sempre più bravi a sputare diagnosi. Per il momento, Watson, il supercomputer di Ibm che ha stracciato i concorrenti umani nel gioco a quiz Jeopardy si limita a fungere da aiuto oncologico nella diagnosi di alcuni tipi di cancro. Ai medici in carne e ossa spetta però ancora l’ultima parola sui provvedimenti da prendere. Domani, chissà. L’avanzata delle macchine appare davvero inarrestabile, tanto da spingere qualche giornalista a definire i robot i nostri nuovi «padroni».
Non è detto però che il futuro per gli umani si debba presentare per forza così tetro. Un po’ perché alcune recenti dichiarazioni di Robert Colwell, direttore del programma Microsystems Technology Office dell’agenzia tecnologica del Pentagono Darpa e per moltissimi anni top manager dell’azienda di processori Intel fissano un tetto di una decina d’anni ancora al massimo per la validità della legge di Moore.
Dopo il 2022, afferma Colwell diverrà anti–economico per i colossi dei chip produrre componenti sempre più performanti. A fermare l’avanzata delle macchine non sarebbe quindi la fisica, ma il vil denaro. E un po’ perché, dopo essere stato ignorato per decenni dagli economisti, il tema della disoccupazione tecnologica ha iniziato a entrare nel dibattito mainstream e ad attirare l’attenzione dei media. E i «servitori» umani stanno iniziando a scervellarsi per trovare delle soluzioni.
Sono passati quasi due anni dalla pubblicazione dell’edizione originale di «In gara con le macchine. La tecnologia aiuta il lavoro?», un libro di Erik Brynjolfsson, direttore del Centro per il Digital Business alla Sloan School of Management del MIT e del collega Andrew Mc Afee, che per la prima volta spiegava in maniera divulgativa e assai lucida gli effetti a breve e medio termine dell’innovazione tecnologica sull’occupazione.
Malgrado la visione dei due autori fosse complessivamente ottimista sul futuro, Brynjolfsson e Mc Afee descrivevano un mondo già in parte reale, di «produttività senza occupazione» in cui la classe media è fortemente compressa e rimpiazzata dalla concorrenza di software e automi, e la maggioranza degli impieghi disponibili per le persone si colloca ai due estremi di una clessidra: da una parte i lavori di bassa manovalanza, per i quali gli umani sono ancora i più qualificati (può sembrare strano, ma caratteristiche come la deambulazione e la destrezza sono ancora difficili da replicare in laboratorio), lavori che però sono pagati poco; dall’altro estremo vi sono invece gli impieghi molto qualificati e assai ben pagati, che richiedono un alto livello di astrazione e flessibilità.
Come uscire da questo impasse? Le soluzioni proposte variano. Dato che uno dei principali effetti dell’automazione è, come sottolinea l’economista Paul Krugman, l’allocare una maggiore quota di reddito ai possessori di capitale, rispetto alla forza lavoro, altri commentatori spingono per una massiccia redistribuzione della ricchezza, ottenuta tassando pesantemente il capitale e usando i proventi per aiutare i disoccupati. Altri vanno ancora più in là.
L’economista Noah Smith ritiene ad esempio che si dovrebbe ripensare radicalmente la struttura delle nostre società, dando una sorta di «dote» in capitale a ogni cittadino maggiorenne – magari sotto forma di possesso di alcuni robot. Brynjolfsson e Mc Afee, fra le altre cose, auspicano un ripensamento dell’istruzione in modo da dare la possibilità ai cittadini che rischiano di essere lasciati indietro di renserirsi nel sistema produttivo. Nel complesso, l’approccio più realistico pare essere quello che riecheggia l’antica massima: «se non li puoi battere, unisciti a loro».
Dato che è impossibile vincere la «corsa contro le macchine», occorre saltare loro in sella.
I ricercatori David H. Autor e David Dorn, autori del rapporto «The Growth of Low Skill Service Jobs and the Polarization of the U.S. Labor Market» pensano a questo proposito che la perdita di impieghi disponibili per la classe media, soprattutto nel campo delle mansione più ripetitive, facilmente automatizzabili, potrà essere almeno in parte compensata dalla necessità di figure professionali che combinino compiti di routine con un certo grado di flessibilità e siano in grado di offrire una qualche forma di interazione personale, tipicamente umana.
Quindi da un lato i «nuovi artigiani», come li definisce l’economista di Harvard Lawrence F. Katz: carpentieri, elettricisti, autoriparatori. Dall’altro esperti di coaching, terapisti, allenatori, personale medico di medio livello, insegnanti. Il cui lavoro non verrà sostituito, ma potenziato dalla tecnologia. Purché sappiano capire da che parte tira il vento, e apprendano in fretta le nuove abilità necessarie a dialogare con le macchine.
Twitter: @fede_guerrini
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