Non è stato facile per me accettare l’evidenza del disfacimento e del crollo di tutti quei pilastri, giuridici, filosofici ed umani, che hanno segnato la storia del nostro Paese, che sento tanto più mio, quanto più forte è la sensazione del suo dissolvimento.
Non è stato facile per me, come non lo è sicuramente per tutti coloro che hanno avuto in sorte la fortuna di incrociare nel loro percorso di vita, per lunga o breve che sia, spiriti alti che hanno avuto la sapienza di trasmettere, a chi ritenevano meritevole, ciò che loro avevano costruito nel loro viaggio, perché non andasse disperso, ma, casomai, arricchito.
Il Sapere, e lo scrivo di proposito con la maiuscola, è disciplina, il Sapere è sacrificio, è una continua e costante lotta contro i limiti posti dai lacci e lacciuoli della propria mente ed ogni laccio sciolto è un pizzico di libertà conquistata. Sì, perché il sapere RENDE LIBERI.
Ma il Sapere di cui parlo non è quello contingentato e filtrato che oggi viene trasmesso attraverso le scuole alle nuove generazioni, opportunamente privato degli strumenti chiave di interpretazione e di giudizio. Il Sapere di cui parlo ha le sue radici nella cultura Umanistica, aperta alla Conoscenza senza pregiudizi o limitazioni di sorta, ma anche nella piena consapevolezza che la LIBERTÀ che da essa deriva porta in sé un tributo da ottemperare: il RISPETTO verso quel sapere e verso quella libertà, pena il disfacimento di tutto.
Con scientifica freddezza e con una sistematicità sapientemente dosata, chi ha preso il sopravvento nella gestione del Paese dal dopoguerra ad oggi ha saputo compromettere, in modo tanto terrificante, quanto efficace agli scopi che evidentemente erano stati prefissati, quelli che rappresentano i pilastri di uno Stato posti a tutela dei cittadini e del popolo. Chi ha la chiara consapevolezza della politica intesa come «ars» (come «arte»), sa perfettamente che chi esercita quell’arte non può prescindere da solide basi di diritto, le quali, a loro volta, non possono andare disgiunte da una conoscenza appropriata di elementi di teoria economica e, imprescindibilmente, dalla conoscenza della storia, della politica e della sociologia. So di poter provocare delle forti reazioni in proposito, ma in questo voglio farmi forte anche delle affermazioni di Maurice Allais, che su questo argomento fu molto esaustivo, soprattutto sul punto dell’imprescindibile raffronto tra teoria economica e suo impatto sulla realtà della vita degli uomini.
Una seria coscienza, giuridicamente formata, sa perfettamente che ciò che distingue lo Stato di natura, dominato dal principio «homo homini lupus», dallo Stato di diritto è, per l’appunto, il diritto. Nessun giurista che possa nobilmente definirsi tale, e dotato di una formazione integrata come quella appena descritta, potrebbe accettare una condizione di «liberismo», direi «spinto», come quella propugnata negli ultimi decenni, che ha allegramente devastato sia il capitalismo, che da imprenditoriale è diventato prepotentemente e preponderatamente finanziario, che gli Stati e i loro popoli. Ed allora vorrei osservare come quel tipo di formazione, la quale avrebbe consentito di sfornare dalle nostre università uomini e donne culturalmente forti, con un alto e spiccato senso critico e tali da impedire lo sfacelo cui stiamo assistendo, oggi, come da troppi anni a questa parte, è impossibile. Lo studio dell’economia è stato opportunamente distinto dal diritto, dalla storia, dalla sociologia e dalla politica (materie care alle facoltà di giurisprudenza e scienze politiche i cui ordinamenti sono stati letteralmente stravolti). La stessa economia è stata sostanzialmente ridotta alla pura elaborazione matematica e, soprattutto, avulsa dall’approfondimento dello studio del ruolo della moneta.
Ho avuto modo di ripetere pubblicamente che: chi ha la moneta ha il potere.
Questo concetto era chiaro ad Aldo Moro quando dispose la stampa della ben nota banconota da cinquecento lire. Ed era ben chiaro ai nostri governanti quando, con alto tradimento del loro popolo e della stessa Costituzione, ci hanno svenduto a degli oramai identificabili «banchieri», attraverso la firma e la ratifica di una serie di atti e trattati europei, totalmente ed assolutamente illegittimi e giuridicamente non solo nulli, quanto, piuttosto, INESISTENTI. Il depauperamento inesorabile, non solo materiale, ma anche culturale e spirituale, cui ci stanno condannando, rischia di portarci sull’orlo di un conflitto dagli esiti sicuramente incerti, conformemente ad un vecchio assioma: «ordo ab caos» (l’ordine dal caos), ma «ordine» promanante da chi, o da cosa?
Mi piacerebbe chiudere questo mio piccolo, e certo non esaustivo intervento, ricordando l’art. 30 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948: «Nulla della presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuni dei diritti e delle libertà in essa enunciati». Il richiamo di questo articolo rappresenta un invito alla lettura dell’intera Dichiarazione Universale, ricordando che alla stesura della stessa hanno collaborato personalità come Ghandi e Maritain, ed insieme un ulteriore invito a confrontarla con i primi dodici articoli della nostra Costituzione, la quale, pur nella consapevolezza della soluzione di compromesso che la stessa ha rappresentato, comunque, sebbene perfettibile, costituisce una delle migliori carte costituzionali al mondo. Purtroppo è stata e viene tuttora ripetutamente e sfacciatamente violata: è evidente che non è stata dotata di sufficienti, o quantomeno pregnatamente efficaci, strumenti di garanzia.
Sempre il richiamo all’art. 30 della Dichiarazione Universale vuole essere un ulteriore invito a considerare la fondatezza della palese attuazione, da parte di tutti coloro che direttamente o indirettamente hanno partecipato e partecipano tuttora alla chiusura di questo nefasto disegno, di evidenti crimini contro l’umanità, perché chi distrugge l’economia di un popolo, distrugge in definitiva quel popolo, con danni incommensurabili per il presente e per il futuro della specie umana. Di questo si sono coraggiosamente fatti portatori i due giornalisti che il 21 novembre 2012 hanno depositato il loro documentato esposto alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, in base all’art. 7 dello Statuto di Roma, firmato e ratificato anche dall’Italia.
«Spes contra spem»: così, simpaticamente, un autorevole Professore di Diritto Romano mi ricordava nei giorni scorsi il motto di Giorgio La Pira.
Io, oggi, andrei anche oltre, dicendo «Spes ultra spem», perché quei piccoli «lupi» che in modo autorevole possono ancora, oggi, consapevolmente dissertare di questi ed altri argomenti, trovino il modo, in un giorno spero non lontano, di riunirsi sotto il vessillo di quei princìpi che rendono alto e nobile lo status e la dignità dell’essere umano, nell’accezione più profondamente umanistica del termine.
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