L’Italia va a rotoli:
non malgrado Monti, ma grazie a lui
Il fallimento delle politiche economiche messe in atto dal governo Monti è anche il fallimento delle teorie economiche che le hanno sostenute sul piano “scientifico”, secondo cui la riduzione della spesa pubblica accresce i consumi e gli investimenti privati. Pessimo il bilancio di Monti: centomila persone, secondo l’Istat, hanno perso lavoro nel corso dell’ultimo mese, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è al massimo storico, sopra il 30%. Catastrofica la valanga di fallimenti che travolge le imprese, con oltre 100 crisi industriali in atto. E il debito pubblico? Sempre peggio: in rapporto al Pil, è aumentato del 6% nell’ultimo anno. Ormai è sempre più evidente: «Ciò che viene definita “crisi” – secondo Guglielmo Forges Davanzati – oggi non è nient’altro che l’inevitabile effetto di politiche fiscali restrittive attuate in un contesto di calo della domanda aggregata: politiche che questo governo, più del precedente, ha perseguito con la massima tenacia».
Cosa sarebbe accaduto se il professore della Bocconi non fosse andato al governo? L’argomento utilizzato dai montiani è indimostrabile: e anche se a Monti va riconosciuta la competenza che a Berlusconi mancava, non c’è «nessuna correlazione significativa fra “credibilità” di un governo ed esposizione del paese al rischio di fallimento». L’argomento del “ce lo chiede l’Europa”, aggiunge Davanzati su “Micromega”, vale al massimo per delegittimare l’Unione Europea, non certo per accreditare la presunta necessità di praticare l’austerity (senza anestiesia) ad un’economia già in crisi, che ora riceve il doppio colpo di grazia: tagli alla spesa pubblica e stangate fiscali. La riduzione della spesa pubblica, ovviamente, non può certo accrescere i consumi: perché costringe i consumatori a risparmiare per far fronte al pagamento delle imposte.
La riduzione della spesa pubblica, secondo Monti, dovrebbe accrescere gli investimenti privati, dato che lo Stato farebbe “concorrenza sleale” alle imprese? Errore: «Si può dimostrare che fra spesa pubblica e spesa privata esistono semmai nessi di complementarietà – sostiene Davanzati – dal momento che la spesa pubblica, accrescendo i mercati di sbocco, accresce i profitti attesi e, di conseguenza, accresce gli investimenti». Questo è particolarmente significativo nel caso italiano e, ancor più, nel caso del Mezzogiorno, dal momento che la struttura produttiva italiana, con poche eccezioni, è costituita da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e scarsamente internazionalizzate. «In questo contesto, l’attuazione di politiche di austerità riduce i mercati di sbocco, potendo determinare – come, di fatto, si è determinato – riduzioni dei profitti e fallimenti».
Stando alla tesi governativa, in questo momento non sarebbe possibile fare diversamente, dal momento che la priorità dell’agenda politico-economica non può che essere la riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil. Peccato che l’evidenza dimostri esattamente il contrario: le politiche di austerità non riducono, ma semmai aumentano l’indebitamento pubblico. E se si stabilisce una presunta correlazione fra variazioni del rapporto debito-Pil e attacchi speculativi, questi ultimi «potrebbero essere (paradossalmente) generati proprio dalle politiche di austerità». Semmai, a facilitare gli attacchi speculativi è «l’assenza di una banca centrale che svolga il ruolo di prestatore di ultima istanza». L’attacco finanziario contro la Grecia è avvenuto in un contesto nel quale il rapporto debito-Pil superava di soli 2 punti percentuali quello italiano. La stessa crisi del 2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito nazionale.
«Se, per contro, la banca centrale è posta nella condizione di acquistare titoli del debito pubblico, potendo di fatto produrre “moneta” senza vincoli di scarsità, nel momento in cui annuncia di volerlo fare, di fatto erge, per così dire, un “muro” nei confronti degli speculatori, modificandone le aspettative, i quali, per quanta ricchezza monetaria dispongano, non ne dispongono mai in una quantità paragonabile a quella di una banca centrale», sottolinea Davanzati. E il caso giapponese – con un rapporto debito-Pil che oscilla intorno al 230%, è emblematico: l’esposizione debitoria è enorme, ma la banca centrale “garantisce” con la facoltà di emissione teoricamente illimitata di moneta sovrana. «Posta la questione in questi termini, e nonostante quanto ripetutamente sottolineato dal professor Monti – conclude Davanzati – non vi è alcuna ragione per la quale non possiamo vivere “al di sopra delle nostre possibilità”, né vi è alcuna ragione per la quale il governo dovrebbe reiterare politiche che non hanno altri effetti se non accentuare l’intensità della crisi».
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