di Carlo Giuseppe Diana
La guerra come esito deliberato della crisi, credo si debba mettere in conto. Due i fattori cardine di questa possibilità:
1) Lo slittamento semantico della terminologia sociale ed economica – le parole mutano il loro significato, si sganciano dalla realtà e dalla vita delle persone e si fanno astratte. Grazie ai media la coscienza e l’immaginario collettivo vengono adulterati e pronti ad accettare condizioni che altrimenti sarebbero improponibili perché contro l’interesse ed il sentimento umano. Le conseguenze reali delle scelte di politica economica e le strategie di impoverimento democratico, non vengono percepite nella loro pienezza. Ogni speranza viene riposta nello sviluppo sic et simpliciter e la differenza fra destra e sinistra sembra essere la quota di reddito da spartire fra capitale e lavoro. Per questa via l’aumento di produttività richiesto dal capitalismo, secondo la tesi di alcuni economisti di sinistra, è in contraddizione con lo sviluppo per la compressione della capacità di consumo dei lavoratori. In verità Il “punto critico” del livello di salario incomprimibile (remunerazione che consenta una vita dignitosa) è stato compresso e la rivoluzione non è scoppiata, nè la sinistra sta reagendo alla gravità inedita delle conseguenze del capitalismo finanziario.
2) Le risorse di origine fossile del pianeta sono in esaurimento e, diversamente dalla crisi del ’29, sullo sfondo non c’è più la possibilità, già allora illusoria, dell’infinita crescita ma un muro di gomma che restituisce con rinnovato vigore ogni pressione che l’uomo va imprimendo all’ecosistema, in termini di alluvioni, esaurimento di fonti energetiche ed alimentari, avvelenamento filiere alimentari, impoverimento biodiversità, ecc. In queste condizioni, tenuto conto del tasso di aumento demografico del pianeta, il sistema terra non è più in grado di accogliere il sistema uomo. La guerra non è solo una possibilità, indicata da Bauman tra gli esiti della crisi ma una scelta politica precisa ancorché inconscia, seguendo lo statuto più intimo della volontà, tra Slavoj Žižek e Jacques Lacan.
Guerra programmata in modo diffuso e parcellare, promossa cercando di rifuggire il caos improduttivo del conflitto mondiale, non tanto per evitare lo sterminio di vite umane, quanto perché valutato infruttuoso dalla cultura finanziaria e liberista, attentissima alle opportunità economiche offerte, invece, dalle ricostruzioni post belliche disseminate sul pianeta. Le moderne economie hanno liquefatto (Zygmunt Bauman) anche l’idea di tempo con l’ideologia del “qui ed ora”. Dunque, nei tempi brevi già si interviene nei punti di crisi colpiti dai conflitti in tante parti del pianeta e si fa business attorno a tutto ciò che gli interventi militari smuovono, in termini politici, di strategie economiche di abbassamento progressivo del costo del lavoro.
La guerra diventa il sistema ordinario per la risoluzione dei conflitti economici generati dalla scarsità di risorse, propagandata dagli osservatori e dai media come sbocco di faccende etniche e religiose. Guerra, quale opportunità di crescita del PIL e di investimenti economico-finanziari. Guerra, come strumento per la distribuzione della ricchezza e per l’adeguamento della massa di popolazione umana alle risorse disponibili.
Non serve una sinistra che fondi politiche e strategie nell’idea di sviluppo così come esso è oggi inteso, il cui misuratore, il PIL, è incompatibile con la scarsità di risorse e con la convivenza civile umana. Anche se si riuscisse ad erodere quote crescenti di ricchezza dalla rendita e dal capitale a favore del salario, quello sviluppo troverebbe nella natura il più autorevole oppositore. Non è più solo questione di equità sociale. Se non si propone un altro sistema di convivenza, di produzione e di consumo, basato innanzitutto sulla conservazione del pianeta (è la sola politica in favore dei giovani, le altre sono mortifere illusioni) si dichiara guerra anche da sinistra.
La soluzione è partire dalle risorse già gravemente erose del pianeta e da lì predisporre politiche di convivenza civile a favore dell’uomo. Politiche che non stanno dentro il concetto di “sviluppo sostenibile”, ossimoro propagandistico speso dalla migliore sinistra per acquietare la propria anima ecologista. Uomo, che sia imprenditore, consumatore, cittadino, singolo o Stato, è indifferente. Se le politiche di convivenza civile partono dallo stato dell’arte della natura e puntano all’esclusivo beneficio umano, nel mezzo nulla potrà corromperne il fine. Neppure l’impresa, neppure la finanza.
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